Come Giuseppe Garibaldi si considera un “fautore” dell’unità nazionale. Leoluca Bagarella rompe il silenzio, e con una memoria inviata alla corte d’Assise di Palermo, che sta celebrando il processo sulla Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra, smentisce di essere stato tra i fondatori del partito Sicilia Libera. Il boss corleonese era stato indicato come ideatore del partito secessionista da diversi collaboratori di giustizia, del calibro di Giovanni Brusca, Tullio Cannella e Angelo Siino: tra le stragi del 1992 e quelle del 1993, Cosa Nostra avrebbe voluto creare un partito che fosse diretta emanazione delle famiglie mafiose. Poi, però, il progetto sfumò, proprio mentre Marcello Dell’Utri stava varando Forza Italia, il nuovo partito di Silvio Berlusconi. Nel documento inviato ai giudici il 12 gennaio scorso, Bagarella smentisce però ogni addebito, specificando di non aver mai “propugnato alcun ideale separatista”. A dare notizia della memoria arrivata da Bagarella è stato il presidente della corte Alfredo Montalto, in trasferta nel carcere romano di Rebibbia per ascoltare la testimonianza di Nicolò Amato, direttore del dipartimento amministrazione penitenziaria dal 1983 al 1993.

“Dopo la strage di via d’Amelio chiamai la direttrice del carcere Ucciardone e individuammo i 55 detenuti più pericolosi, per trasferirli a Pianosa, in regime di 41 bis. Dopo pochi giorni applicai il carcere duro anche a altri 1.109 detenuti” ha raccontato Amato interrogato dai pm Roberto Tartaglia, Nino Di Matteo, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene. “Non ebbi impressione che nel governo ci fossero pareri discordanti sul carcere duro per i mafiosi” ha continuato l’ex direttore del Dap, spiegando, però, che in seguito notò alcuni cambiamenti. “Quando si applicava il 41 bis il ministro Giovanni Conso (che aveva preso il posto di Claudio Martelli) era sempre preoccupato che l’allora titolare dell’Interno, Nicola Mancino, lo sapesse. Una volta per questo avemmo una discussione e io gli dissi: Guarda che sono materie di nostra competenza, mica serve il suo consenso. Probabilmente le preoccupazioni del Viminale erano relative a eventuali rischi per l’ordine pubblico derivanti da strette carcerarie”.

Secondo Amato, anche l’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi si mostrò critico sull’utilizzo dei provvedimenti di 41 bis, durante una riunione del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica, il 12 febbraio del 1993: di quelle critiche, però, non c’è traccia nel verbale di quell’incontro. E a quel punto che Oscar Luigi Scalfaro decide di “silurare” Amato dal vertice del Dap: una decisione presa in breve tempo, che per l’accusa è dovuta all’atteggiamento “duro” tenuto dal dirigente dell’amministrazione penitenziaria nei confronti dei detenuti mafiosi. “Incontrai il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni qualche giorno prima del mio allontanamento dal Dap e lui mi disse che il presidente della Repubblica aveva deciso così e che entro una settimana me ne dovevo andare” ha ricordato Amato, che subito dopo quel “licenziamento” andò a parlare con Conso. “Il Guardasigilli non mi diede alcuna spiegazione. Mi disse che si trattava di un normale avvicendamento”. Secondo Amato il suo allontanamento è legato alla lettera di minacce inviata poco prima a Scalfaro: era firmata da sedicenti familiari di detenuti e lamentava la durezza del regime carcerario sotto la sua gestione. In quella missiva Amato era definito “il dittatore”, ma il diretto interessato non venne mai informato dell’arrivo di quella lettera. “Conteneva gravissime minacce a me, ma non mi fu detto nulla. Ne seppi l’esistenza dopo tempo. Se me ne avessero parlato, avrebbero dovuto dirmi se ero d’accordo a un alleggerimento del regime di 41 bis e io avrei risposto di no. Ma a quel punto non avrebbero mai potuto giustificare la mia rimozione”.

Dopo il siluramento di Amato, il capo dello Stato Scalfaro affidò la gestione del Dap ad Adalberto Capriotti e a Francesco Di Maggio. “Il primo aveva esperienza nella gestione detenuti, il secondo per nulla”. E in effetti Di Maggio non aveva i titoli per essere nominato vice direttore del Dap: Scalfaro quindo lo nominò prima consigliere di Stato. La corte d’assise rimarrà in trasferta nella Capitale fino a giovedì 5 febbraio: domani verrà ascoltata la testimonianza di Capriotti, mentre dopodomani toccherà all’ex segretario della Dc Arnaldo Forlani. Capriotti potrebbe avvalersi della facoltà di non rispondere dato che è ancora indagato per false informazioni ai pm: per quel reato il codice prevede infatti che la posizione dell’indagato resti sospesa fino a quando il procedimento principale non arrivi alla sentenza del primo grado di giudizio. Bisognerà quindi attendere fino alla prima sentenza del processo sulla Trattativa prima di chiedere il rinvio a giudizio per Capriotti, ma anche per Conso e l’ex eurodeputato Giuseppe Gargani, indagati per lo stesso reato. Conso e il presidente della Repubblica emerito Carlo Azeglio Ciampi erano nella lista dei testimoni che i pm avrebbero voluto ascoltare durante questa trasferta romana: entrambi ultranovantenni hanno però inviato un certificato medico per spiegare di non poter essere presenti in aula, a causa di motivi di salute.

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