Lo Stato gli chiede 820 milioni di euro per danno erariale, loro rispondono facendo causa ad Alfano e pretendendo dal Ministero degli Interni un risarcimento colossale: 530 milioni di euro. Già che ci sono, fanno pubblicare un’ordinanza vecchia di tre anni che è l’ultimo azzardo in casa Corallo, i re delle slot machine: il tentativo di influenzare per via mediatica i giudici che a giorni scriveranno il destino della loro Bplus, la più grande concessionaria di giochi in Italia, ormai arrivata alla bocca dell’imbuto giudiziario-amministrativo in cui è finita da tre anni collezionando un’interdittiva antimafia, l’obbligo di cessione delle azioni e il successivo commissariamento per mancato adeguamento a quell’obbligo. E’ l’ultimo colpo di scena in una battaglia legale senza esclusione di colpi, che contrappone lo Stato concedente alla società concessionaria e ora viaggia spedita verso un’epilogo quanto mai incerto. In ballo, centinaia di milioni di euro che potrebbero dare un po’ di sollievo al governo Renzi.

Fatto sta che su Repubblica tre giorni fa è apparso, con grande evidenza, un estratto che ha fatto alzare il sopracciglio ai lettori più attenti. Riporta parte di un’ordinanza con la quale il Tribunale di Roma ordina al Ministero degli Interni di rimuovere dal suo sito un passaggio di una relazione nella quale la Dia ipotizza una contiguità sospetta tra i fratelli Carmelo e Francesco Corallo – figli di Gaetano, personaggio noto alle cronache giudiziarie, tra l’altro, per i suoi affari con il boss Nitto Santapaola – e la mafia. Privo di una data, l’avviso induce a pensare a una decisione a favore dei Corallo recentissima, anzi “urgente”, come si legge nel testo. Ma non è affatto così. Quell’estratto risale a settembre del 2011 e nessun giudice, a tre anni di distanza, ne ha disposto la ri-pubblicazione. Due le ipotesi: o è quella vecchia, già pubblicata, oppure (ed è pure peggio) è stata tenuta in un cassetto per poterla utilizzare al momento più opportuno, due giorni prima dell’udienza per il commissariamento di Bplus.

Pochi dubbi ​invece sulla paternità dell’iniziativa, attentamente omessa. “Non è certo nostra”, scandisce il commissario straordinario, Vincenzo Suppa, che ad agosto è stato chiamato da Raffaele Cantone ad amministrare la società. Bocche cucite alla Manzoni, concessionario di pubblicità del Gruppo L’Espresso. Gli avvocati dei Corallo, Bruno Capponi e Domenico Di Falco, si guardano bene dal rivendicarla, consapevoli (forse) che proporre pubblicità a pagamento con le fattezze di un avviso tribunalizio non è pratica che si insegni a giurisprudenza, soprattutto se l’intendimento è creare un clima favorevole al cliente prima del giudizio. Dove “prima” vuol dire tre giorni prima. Perché proprio oggi si svolge presso il Tar del Lazio l’udienza incidentale sul commissariamento disposto dal Prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, su richiesta di Raffaele Cantone, il presidente dell’Anticorruzione.

Non solo. Tra un mese, l’8 ottobre, è infatti fissata l’udienza di merito sul ricorso contro l’interdittiva antimafia emessa nel settembre 2012, sempre dal prefetto Pecoraro. Si tratta del primo atto di rottura tra Stato e Bplus, quello che ha fatto calare un muro su interessi prima convergenti. Dal 2004 Bplus, già nota col nome di Atlantis, movimenta miliardi di euro per conto dello Stato, a stretto contatto coi Monopoli che, negli ultimi nove anni, non avevano mai fatto appunti, limitandosi a incassare. Finché un’informativa della Prefettura ha notificato ai Monopoli che Francesco Corallo era indagato, insieme all’ex presidente della Banca Popolare di Milano Massimo Ponzellini, nell’inchiesta sui presunti finanziamenti irregolari concessi dall’istituto di credito. L’accusa di associazione a delinquere e corruzione fra privati ha fatto ritenere alla Prefettura che non si poteva escludere il coinvolgimento di organizzazioni mafiose. Per quella vicenda a fine luglio, si sa, Corallo è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Milano.

Ma a lungo hanno continuato a prevalare gli “interessi pubblici in gioco”, rappresentati da circa un miliardo di imposte l’anno garantite allo Stato e da 300 posti di lavoro da tutelare. L’interdittiva antimafia, a ben vedere, non ha interdetto nulla. Le autorità l’hanno sospesa più volte (26 luglio 2013, 27 maggio 2014) ma senza revocarla, come chiedeva l’azienda (che per questo ha fatto ricorso a Tar e Consiglio di Stato, che hanno rigettato l’istanza e fissato per l’8 ottobre l’udienza di merito). La speranza, fino all’ultimo, era di trovare garanzie nella controparte che consentissero a Bplus di proseguire le attività in Italia. Nel 2013, in cambio dell’ennesima concessione, la Prefettura aveva ottenuto dai Corallo una serie di garanzie: l’impegno a separare proprietà e gestione, cedendo tutte le azioni a un trust (B PlusTrust), e a spalancare le porte a un “controllore” incaricato di vigilare sulla legalità e sull’operazione di cessione. La scelta cade su Alfonso Rossi Brigante, ex presidente della Corte dei Conti in pensione. Anche questo tentativo fallisce. In una nota del 29 maggio Brigante informa la Prefettura che “la società non consente di esercitare le funzioni proprie del mio mandato, presupposto indefettibile della sospensione temporanea del provvedimento interdittivo antimafia”.

Il Prefetto di Roma – in accordo col Viminale e su impulso dell’Autorità anticorruzione – disporrà allora il commissariamento di Bplus, rimettendone l’amministrazione nelle mani del generale Suppa e dei subcommissari Luca Cristini e Stefano Sestili. A sollecitare il provvedimento è stato il presidente dell’Anac (Autorità nazionale anticorruzione) Raffaele Cantone, forte delle nuove norme varate dal governo di Matteo Renzi (articolo 32 del decreto legge n. 90 sulla P.a): se l’autorità giudiziaria procede per fatti gravi contro un’impresa destinataria di un appalto pubblico o una concessione, il numero uno dell’Anticorruzione propone al prefetto il commissariamento per salvaguardare l’occupazione. Bplus si è subito opposta e domani, su questo aspetto delicatissimo, si svolgerà l’udienza incidentale.

Ma i tempi della giustizia amministrativa stringono anche su un altro fronte. Il 15 ottobre è atteso anche il giudizio instaurato presso la Procura della Corte dei Conti sul sequestro cautelativo di 29,5 milioni di euro relativo alle “maxi penali” contestate nel procedimento sul mancato collegamento delle slot tra il 2004 e il 2007. La vicenda si trascina ormai da anni. Alcune società hanno conciliato, non Bplus sulla quale grava una condanna in primo grado emessa dalla Corte nel 2012 a risarcire lo Stato con 820 milioni di euro. Bplus ha fatto appello, dopo vari rinvii a metà ottobre sarà discussa anche questa vicenda.

I legali della società sono dunque costretti a giocare su più tavoli giudiziari. E lo fanno anche con mosse clamorose, di cui l’inserzione è solo l’ultima. Gli avvocati Capponi e Di Falco hanno citato in giudizio davanti al tribunale civile di Roma il ministero dell’Interno, nella persona del ministro Alfano, e il prefetto Pecoraro, per i presunti danni aziendali subiti dall’interdittiva. La richiesta di risarcimento è enorme, oltre 530milioni di euro: mai un ministro dell’Interno, né tantomeno un prefetto, erano stati citati per simili importi. Poi, un raddoppio di marcatura: sempre agli inizi del mese scorso lo studio legale londinese Hierons, per conto di Bplus, ha chiesto al prefetto di Roma di revocare i provvedimenti: in caso contrario, avvertono i legali inglesi, si rivolgeranno all’Alta Corte di Londra. La sfida Stato-Bplus, scrive il Sole24Ore, assume così i “contorni di un legal thriller internazionale con cifre da capogiro”.

LA PRECISAZIONE DELLO STUDIO LEGALE CAPPONI E DI FALCO

“In riferimento all’articolo, lo  Studio Legale Capponi e Di Falco precisa di non aver mai difeso i sig.ri Corallo, bensì unicamente la società Bplus nella causa di risarcimento danni contro il Ministero dell’lnterno e il Prefetto di Roma, la cui prima udienza dev’essere ancora celebrata.  Lo stesso Studio non ha avuto alcuna parte né nel procedimento cautelare che ha portato all’emissione dell’ordinanza ora pubblicata in estratto, né nella sua pubblicazione su La Repubblica. ln ogni caso, il giornalista dovrebbe sapere che la pubblicazione è avvenuta a norma dell’art. 120 cod. proc. civ.”. 

Gentili avvocati, ho scritto espressamente che lo studio non rivendica la paternità dell’iniziativa, proprio perché ritenevo improbabile che avesse accondisceso alla richiesta di pubblicazione a tre anni di distanza dall’emissione dell’ordinanza e a due giorni dall’udienza alla Corte dei Conti, circostanza che si configura –  a mio avviso – strumentale al condizionamento della stessa ™


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