Già ieri sera i telegiornali anticipavano l’interpretazione “ortodossa” della nota quirinalizia, in risposta alle pressanti richiesta del centrodestra di un salvacondotto per il proprio supremo Boss, dopo la nota sentenza della Cassazione: un severo monito di Giorgio Napolitano, che suona come pressante invito ad attenersi al più assoluto rispetto dei pronunciamenti della magistratura.

Però la lettura del testo completo induce ben altre considerazioni, a partire dalla comprensione – di certo non necessaria, eppure manifestata esplicitamente dal Presidente della Repubblica – per lo stato d’animo revanscista che si diffonde tra i berluscones innanzi allo spettacolo del martirio (?) dell’ex Cavaliere: «in questo momento è legittimo che si manifestino riserve e dissensi rispetto alle conclusioni cui è giunta la Corte di Cassazione nella scia delle valutazioni già prevalse nei due precedenti gradi di giudizio; ed è comprensibile che emergano – soprattutto nell’area del PdL – turbamento e preoccupazione per la condanna a una pena detentiva di personalità che ha guidato il governo (fatto peraltro già accaduto in un non lontano passato) e che è per di più rimasto leader incontrastato di una formazione politica di innegabile importanza».
Qualcosa come un affettuoso buffetto ai supporter un po’ intemperanti del “leader incontrastato e di innegabile importanza”; dalla Biancofiore alla Santanché, passando per Cicchitto e Brunetta.

Cui fa seguito l’estrema ambiguità con cui si affronta il sollecitato atto di clemenza; che – si lascia intendere en passant – potrebbe tradursi nella sostituzione della pena detentiva con un’ammenda pecuniaria (passaggio di intenzionale comicità, in quanto rivolto a un evasore miliardario): «la grazia o la commutazione della pena può essere concessa dal Presidente della Repubblica anche in assenza di domanda».

Il tutto nell’apparente severità inflessibile della puntualizzazione scontata che tale atto  ha da svolgersi «nell’esercizio di quel potere, di cui la Corte costituzionale con sentenza del 2006 gli ha confermato l’esclusiva titolarità, il Capo dello Stato non può prescindere da specifiche norme di legge, né dalla giurisprudenza e dalle consuetudini costituzionali». Severità apparente, apertura sottotraccia.

Possiamo considerare quanto sopra l’ennesimo riflesso condizionato derivante dalla monomania da stabilità che si annida proprio tra gli abitanti dei colli più alti? Per cui il bene supremo sarebbe rappresentato dalla sopravvivenza del Governo presieduto dal fido Enrico Letta. Possibile.

Ma tale interpretazione non libera da un inquietante retropensiero, che accompagna l’intero ventennio di Seconda Repubblica: quali sono le ragioni della generale condiscendenza nei confronti di un ometto buffo, autorizzato a fare il bello e il brutto tempo a proprio insindacabile piacimento? Non sarà che l’ex ufficiale pagatore di Bettino Craxi, costretto a giocare in proprio dalla catastrofe che colpì il suo mentore, avesse già raccolto sufficienti tibie e scheletri negli armadi della Prima Repubblica da tenere stretta per i gingilli buona parte di quella classe dirigente italiana?

A 360 gradi, visto che le sue interlocuzioni erano assolutamente indiscriminate (alla faccia della successiva drammatizzazione del complotto comunista, da cui bisognava salvare la democrazia in pericolo). Tanto per dire, quando negli anni Ottanta Fininvest si accaparrò l’esclusiva della pubblicità mondiale sulle reti televisive dell’allora Unione Sovietica, in concomitanza con quel successo imprenditoriale (che, come già aveva rivelato l’affare Fiat a Togliattigrad, necessitava di qualche spintarella che partisse dall’Italia, magari dal PCI di allora) sulle riviste dell’area “migliorista” comparvero improvvisamente paginate pubblicitarie sottoscritte dalle aziende del Biscione.

 

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