Perché lo Stato non protesse abbastanza Borsellino? Qualcosa non torna nell’antimafia di quegli anni

Qualcosa non torna nell’antimafia degli anni 70/80/90. Paolo Borsellino che non si fida di Giammanco e si confida coi suoi colleghi Vittorio Teresi e Antonio Ingroia, pregandoli di non riferire nulla a Giammanco. Definisce la procura di Palermo “un nido di vipere” e a due giovani magistrati Massimo Russo e Alessandra Camassa, dice piangendo: “Un amico mi ha tradito”. E tutto questo, quando il suo fraterno amico, Giovanni Falcone, l’aveva lasciato solo: Falcone era stato costretto ad emigrare a Roma.
Ricordo perfettamente che, quando incontrai Borsellino a Roma il 1 luglio 1992, non era più l’uomo allegro che avevo conosciuto 10 anni prima: era molto triste ed io attribuii il cambiamento alla perdita del suo migliore amico. Dopo la strage di Capaci, Paolo Borsellino aveva ottenuto una seconda auto di scorta e, rivolgendosi a Ingroia, disse:
“Una macchina in più, una macchina in meno conta assai poco se mi uccideranno mi faranno saltare in aria con una bomba, e non è con una macchina di scorta in più che potrà scongiurare questa cosa. E ricordo anche che lui rimase molto impressionato, positivamente impressionato dal sistema di protezione che per lui era stato predisposto allorché si recò con la collega Principato in Germania 15 giorni prima della strage. Ricordo che lui mi riferì che i tedeschi avevano predisposto una serie di misure quali registrazione sotto – falso nome presso l’albergo – erano stati posti sotto controllo i loro telefoni di albergo. Non lo lasciavano un attimo solo, neppure all’interno dell’albergo, quando si spostavano la dottoressa Principato e il dottor Borsellino erano in macchine diverse, separate e lui mi disse che il corteo era di otto macchine, lui mi accennò anche ad una macchina che conoscendo prima l’itinerario che avrebbe fatto il corteo, andava a fare la cosiddetta bonifica. Lui per la verità mi disse anche che questa macchina aveva un’apparecchiatura che consentiva di rilevare gli esplosivi”. (Audizione di Ingroia al Csm datata 31 luglio 1992 verbale nr 47)
Da anni sostengo che, in alcuni delitti eccellenti o stragi di mafia, la responsabilità oggettiva è addebitale allo Stato o a personaggi vestiti con abiti istituzionali. Quello che ha raccontato il magistrato Antonio Ingroia fa davvero accapponare la pelle se si raffrontano le misure adottate in Germania e quelle previste in Italia: un paese straniero salva la vita a Borsellino, mentre lo Stato italiano si limita a concedergli una seconda auto, col risultato che verrà ucciso.
In un paese dove Cosa nostra la fa da padrona, cosa fa? Adotta misure ridicole e non compie atti idonei a salvaguardare la vita di Borsellino e dei miei colleghi di scorta. E, quindi, mi chiedo perché gli apparati dello Stato non evitarono la strage di via D’Amelio? Fu una scelta da dilettanti allo sbaraglio o ci fu dell’altro? A chi fece comodo l’uccisione di Paolo Borsellino? E perché si tenta di sminuire o addirittura definire “bufala” l’ipotesi investigativa che voleva condurre Borsellino sulle notizie propalate nel famoso fascicolo mafia-appalti del Ros? E chi può escludere che l’accelerazione della strage di via D’Amelio non sia scaturita da future indagini che Borsellino aveva in animo di condurre proprio su mafia-appalti?
Queste sono le domande ricorrenti che mi frullano in testa, e ciò anche alla luce di avvenimenti passati. Più volte ho menzionato negligenza e imperizia – e forse anche dolo – di uomini dello Stato, sugli omicidi di Pio La Torre, Rocco Chinnici, Carlo Alberto Dalla Chiesa, e sulla strage di Capaci. Mi piacerebbe un giorno partecipare a un dibattito ed elencarli con elementi fattuali. Dopo gli omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati e le stragi mafiose, nessuno – tra politici e uomini delle istituzioni – sentì la necessità di rassegnare le dimissioni, o assumersi la responsabilità del loro fallimento: non si vergognarono nemmeno. Tutti rimasero abbarbicati e sedenti negli ambulatori del potere. Lo dico senza infingimenti: mi spiace tantissimo notare le contrapposizioni sul movente e sull’accelerazione della strage di via D’Amelio.
Ritengo che ognuno di noi dovrebbe mettere da parte i pregiudizi e la vanità di ritenersi unici detentori di verità. Una lezione di buon senso ce la suggerisce la Cassazione nel dispositivo – depositato qualche giorno fa – che annulla la condanna di Antonino Madonia, per l’omicidio Agostino. La Suprema Corte definisce alcune dichiarazioni de relato “chiacchiericcio”. Ecco, chi è deputato ad esercitare l’azione penale dovrebbe tener conto che le prove debbano essere corroborate da elementi di fatto e questo deve avvenire in dibattimento e non sui social o nei talk show. Altro che “chiacchiericcio”.
Infine, una domanda, perché furono uccisi Pietro Scaglione (1971), Cesare Terranova (1979), Gaetano Costa (1980), Rocco Chinnici (1983), Giovanni Falcone (1992) e Paolo Borsellino (1992), tutti magistrati in servizio a Palermo? Leggete i diari di Rocco Chinnici e forse riuscirete a comprendere il clima dell’antimafia di quegli anni nel Palazzo di Giustizia di Palermo.