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Per ridurre le emissioni il settore marittimo valuta i biocarburanti. Ma si rischia effetto boomerang

"Si rischierebbe di creare un mercato che oggi non c’è, portando a una maggiore distruzione della foresta pluviale e all’accaparramento delle terre. Significa accelerare il cambiamento climatico”, spiega l'esperto a Ilfattoquotidiano.it
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L’Organizzazione marittima internazionale punta a raggiungere emissioni nette zero entro il 2050 in uno dei settori “hard to abate”. E lo farà anche attraverso il nuovo Global Fuel Standard a cui dovranno attenersi i carburanti considerati ‘a basse emissioni di carbonio’ e che dovrà essere definito entro aprile 2025. Ma l’assenza di criteri chiari sui biocarburanti, soprattutto quelli di prima generazione, prodotti da colture alimentari come olio di palma e di soia, potrebbe portare a un incremento sostanziale del loro utilizzo, aggravando l’impatto climatico del settore. Questo a causa delle emissioni dovute al cambiamento indiretto dell’uso del suolo.

Ilfattoquotidiano.it ha chiesto a che punto è la discussione a Carlo Tritto, Sustainable Fuels Manager per Transport & Environment Italia che, in un recente studio, ha evidenziato come quasi un terzo del trasporto marittimo globale, al 2030, potrebbe dipendere dai biocarburanti, con olio di palma e di soia che rappresenterebbero circa due terzi del biodiesel utilizzato, perché i più economici e disponibili sul mercato. “Se l’Organizzazione marittima internazionale dovesse includerli tra quelli considerati ‘a basse emissioni di carbonio’, spiega Tritto, si rischierebbe di creare un mercato che oggi non c’è (quello dei biocarburanti nel settore marittimo, ndr), portando a una maggiore distruzione della foresta pluviale e all’accaparramento delle terre. Significa accelerare il cambiamento climatico”.

Qualche cifra? Secondo Transport & Environment “il GFS senza restrizioni su questi biocarburanti potrebbe causare fino a 270 milioni di tonnellate equivalenti di CO2 di emissioni aggiuntive nel 2030, rispetto all’attuale mix di combustibili fossili”.

La strategia dell’Imo e i nuovi standard – Il trasporto marittimo oggi è responsabile del 3% delle emissioni mondiali “e dipende in larga parte dalla varietà peggiore di carburante, ossia l’olio combustibile” aggiunge Tritto. Nel 2023, l’Unione Europea ha incluso il settore nel sistema Ets. Parallelamente, sono state approvate una serie di norme, dalla Legge sul Clima al RefuelUe.

“Al 2050, spiega Tritto, i carburanti utilizzati nel settore marittimo in Ue dovranno registrare una riduzione dell’80% delle emissioni rispetto al valore di riferimento dell’olio combustibile, che oggi è intorno ai 92 grammi equivalenti di Co2 per megajoule (gCO2eq/MJ). Bisogna arrivare a 10-15 grammi entro metà secolo”. Anche a livello globale si sta cercando di fare questo sforzo.

A luglio 2023, l’Organizzazione marittima mondiale (Imo) ha approvato la Revised Greenhouse Gas Strategy, impegnandosi a fornire un pacchetto di regole che obbligheranno le navi a ridurre il loro impatto sul clima, anche per non creare condizioni di concorrenza sleale tra Paesi con legislazioni più rigorose e altre con vincoli meno stringenti. Uno step importante sarà proprio la definizione del Global Fuel Standard (GFS), che obbligherà le navi a passare gradualmente dai combustibili fossili ad alternative più pulite.

Gli effetti indiretti dei biocarburanti coltivati – “Nella categorizzazione dei carburanti, però, aggiunge Tritto, al momento non si prevede una distinzione tra i biocarburanti di prima generazione (quelli coltivati) e quelli avanzati (più sostenibili, ma con un problema di scarsità). Eppure i primi hanno un maggiore impatto emissivo dovuto al cambiamento indiretto dell’uso del suolo”. Si chiama ILUC, acronimo che si riferisce alle emissioni di gas serra derivanti dallo spostamento della produzione agricola, per scopi alimentari e mangimistici, quando il terreno viene invece utilizzato per colture di biocarburanti.

Tra gli esempi più diffusi sul mercato, ci sono l’olio di palma e l’olio di soia, con un ruolo più marginale per quello di colza. Secondo lo studio di T&E, per sostenerne la domanda crescente nel settore marittimo, sarebbero necessari circa 35 milioni di ettari di terreno agricolo entro il 2030, un’area geografica equivalente all’intera Germania.

L’espansione del terreno per la semina delle colture, però, avviene spesso a scapito di ambienti ricchi di carbonio, come terreni naturali e foreste. E la perdita di riserve di carbonio comporta l’emissione in atmosfera di una quantità significativa di gas serra immagazzinate nella vegetazione e nel suolo. Alcune di queste problematiche hanno portato paesi come Norvegia, Francia, Paesi Bassi a limitare o vietare i biocarburanti prodotti da materie prime come palma o soia.

“Nell’ambito della discussione sul Global Fuel Standard, però, non si sta tenendo conto degli impatti indiretti e delle emissioni a monte di questi biocarburanti” aggiunge Tritto. Alcuni operatori del settore dichiarano che utilizzeranno i biocarburanti più sostenibili, quelli di scarto, come oli da cucina usati, grassi animali o residui agricoli. Tuttavia, la loro disponibilità è limitata e potrà soddisfare solo una piccola parte della domanda prevista.

“T&E ha calcolato che se si dovessimo utilizzare una quantità di biocarburante a base di olio esausto da cottura in una nave da carico da 20mila Teu (la misura standard di lunghezza nel trasporto dei container, ndr) per farla viaggiare dalla Cina al Brasile, osserva Tritto, occorrerebbero 7.600 tonnellate di olio esausto, che è più o meno il consumo annuale di olio da cucina di duemila ristoranti McDonald’s”. Così, in uno scenario in cui l’Imo non dovesse fissare alcuna restrizioni per i biocarburanti coltivati, olio di palma e di soia potrebbero costituire il 60% del mix globale di materie prime per il biodiesel entro il 2030, con l’olio di colza che ne costituisce il 20% e il resto soddisfatto da quantità minori di oli da cucina usati (10%), grasso animale (8%) e residuo cellulosico (2%).

Gli appelli all’Imo e alla Commissione Ue – In questo contesto, cinque compagnie di navigazione, tra cui la tedesca Hapag-Lloyd e tre ong (tra cui T&E), hanno scritto all’Imo perché escluda i biocarburanti derivati da colture alimentari dalla lista delle alternative ecologiche ai combustibili fossili nel settore marittimo. Transport & Environment, poi, in coordinamento con l’Associazione europea degli armatori e Airlines for Europe, ha chiesto un intervento alla Commissione Ue per favorire la produzione di carburanti puliti per il trasporto marittimo e l’aviazione.

“Per T&E la soluzione di decarbonizzazione ideale è la produzione di e-fuel, i carburanti sintetici realizzati attraverso energie rinnovabili che, però, non saranno disponibili in volumi e a costi accessibili prima del 2030-2035” commenta Tritto. “Da qui il problema: se sono un armatore, ho una compagnia e devo rispettare le nuove normative nel breve periodo dovrò ripiegare su ciò che è ora disponibile”.

Sulla convenienza ei benefici degli e-fuel le posizioni in Europa e nel mondo sono diverse. “Qui però si sta parlando di un settore hard to abate, non si parla di elettrificare il trasporto stradale. Nel medio e lungo termine – conclude Tritto – si parla dei carburanti più scalabili, che non comportano problemi per la coltivazione dei suoli e non scontano quelli dei biocarburanti avanzati, che sono risorse limitate”. Oggi, però, non solo costano di più. A giugno 2024 l’ong ha analizzato i progetti europei per la produzione di carburanti verdi: “Su circa 60, 17 sono dedicati al settore marittimo, ma nessuno italiano. Per facilitare lo sviluppo del mercato serve, in primis, un sistema di garanzie tra chi produce e chi compra il carburante”.

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