Un musicologo, nell’organizzare un convegno interdisciplinare, si rivolse a uno storico di spicco, docente universitario. Voleva che mettesse in luce certe connessioni fra musica e contesto storico in un dato secolo. Il collega ascoltò, e infine ribatté: “Mi consideri sordo”. Tradotto: non m’importunate, non so cosa sia la musica. Dell’invito al convegno non se ne fece nulla, i musicologi procedettero per conto loro, lo storico rimase felicemente al suo scrittoio.

Questo episodio, noto a chi scrive, è uno sfortunato caso singolo? Forse no. In Italia è considerato “colto” chi conosce Dante, Michelangelo, la fenomenologia dello spirito, la teoria dei quanti, anche se poi ignora Rossini, la Quinta di Beethoven o la Tosca di Puccini. Nel Bel Paese, semplicemente, la musica non è considerata parte integrante della cultura. E infatti dopo la scuola media – la sola in cui figura la disciplina denominata “Musica” – tutto si ferma. Quando lo studente entra al liceo (classico, linguistico, scientifico, artistico eccetera), il rapporto con l’arte dei suoni s’interrompe. Il giovane, proprio nell’età più propizia alla formazione del senso estetico e della maturazione sentimentale, non è indotto a frequentare sale da concertoteatri d’opera, a detrimento della sua cultura generale. Una ricaduta, anche economica, di questa trascuratezza nella formazione del gusto per la musica è sotto gli occhi: il pubblico invecchia; si restringe il mercato del lavoro per musicisti, ballerini, maestranze; si chiudono le orchestre.

Introdurre l’apprendimento della Storia della musica nella fascia adolescenziale – alla stregua della Storia dell’arte, meritoriamente presente in tutti i licei – sarebbe dunque provvidenziale. Ma oggi la disciplina figura solo nel Liceo musicale e coreutico. Da più parti se ne invoca la presenza nel curriculum scolastico; lo riconoscono, in particolare, i docenti di Lettere, Lingue, Filosofia, i più sensibili agli intrecci con la musica. Due pregiudizi vanno banditi. Il primo: la Storia della musica non è il banale raccontino di eventi, date, biografie. Essa si fonda sul confronto con l’opera d’arte musicale nel suo contesto storico, attraverso percorsi di ascolto riflessivo. Così come fa la Storia dell’arte attraverso la visione. Il secondo pregiudizio: non è vero che per “capire” la musica bisogna saper suonare. Così come non è necessario saper scrivere sonetti o terzine per leggere e apprezzare il Canzoniere o la Divina Commedia. Né è obbligatorio saper cucinare il cappon magro per gustare un buon pranzo.

Del problema si è parlato a Roma in un convegno organizzato dal ministero dell’Istruzione, su iniziativa della sottosegretaria Paola Frassinetti. Lo stimolo è venuto da un gruppo di sodalizi: Associazione nazionale dei docenti AFAM, “Il Saggiatore musicale”, Associazione fra Docenti universitari italiani di musica, Società italiana di musicologia, Istituto italiano per la Storia della musica. Si sono pronunciati i musicologi e professori – con varie e diverse competenze – Lorenzo Bianconi, Giovanni Giuriati, Claudio Toscani, Agostino Ziino. Ha introdotto e coordinato Antonio Caroccia, del conservatorio di Santa Cecilia.

Un dato notevole è la dichiarata apertura che hanno concordemente manifestato Frassinetti (Fdi), Irene Manzi (deputata Pd della commissione Cultura) e anche la dirigente del dipartimento per il Sistema educativo, Carmela Palumbo. Manzi, in particolare, ha ricordato che nella precedente legislatura è stata depositata, sulla base di un vasto consenso partitico, una proposta di legge promossa da Michele Nitti (che di mestiere fa il docente al conservatorio di Lecce) per attivare l’insegnamento di Storia della musica in via sperimentale. È un filo che la legislatura in corso può riannodare. Frassinetti si è dichiarata favorevole. Non è poco.

Certo, non mancano le difficoltà: il monte ore dei programmi scolastici e l’organico docenti non si lasciano espandere a fisarmonica. L’ostacolo è reale. Di contro, promette bene che l’argomento sia stato sollevato e istradato a inizio legislatura, e sulla base di un tendenziale consenso trasversale. Se il Parlamento lo vorrà riprendere, ci sarà il tempo utile per svolgere un programma di audizioni e di confronti che portino a un risultato concreto. La strada è lunga, ma forse meno impervia che nel passato.

Nel frattempo il “Piano delle Arti”, varato con decreto del 2017, amplia e arricchisce la risorsa del “Piano triennale dell’offerta formativa”, che già assicura una certa elasticità nella programmazione da parte dei singoli istituti. A loro volta i corsi di formazione e aggiornamento del personale docente in servizio possono alimentare la conoscenza della Storia della musica e dei suoi metodi con gli insegnanti di altre discipline, a cominciare da Lettere, Lingue, Storia, Filosofia. Un presupposto necessario è che i musicologi non demordano nel sensibilizzare il mondo della scuola. Si diano dunque da fare. E ancora: sapranno procedere d’accordo, maggioranza e opposizione, su una questione culturale così importante? Da Roma qualche buon segnale c’è stato. Confidiamo nel senso di responsabilità di tutti.

***

Nella foto in alto – La maestra Speranza Scappucci, pianista e direttrice d’orchestra, è stata la prima donna italiana a dirigere un’opera al Teatro alla Scala. Ha più volte fatto appello perché l’insegnamento della storia della musica sia inserito nei programmi scolastici

Articolo Precedente

Maturità, torna il presidente della commissione esterno: polemiche sull’esame nel “formato” pre-Covid

next
Articolo Successivo

Bella Ciao? Divisiva per consigliere comunale di Parma Fdi: “Non sia cantata al saggio della scuola primaria”

next