I carabinieri assolti con una formula più ampia, il reato contestato ai mafiosi riqualificato in tentato e quindi prescritto, l’assoluzione di Marcello Dell’Utri confermata. La Cassazione ha messo la parole fine sulla cosiddetta Trattativa tra pezzi dello Stato e Cosa nostra. Lo ha fatto con una sentenza che smentisce gran parte della ricostruzione della corte d’Assise d’Appello di Palermo (che comunque aveva già assolto la maggior parte degli imputati), respingendo completamente le richieste della procura generale. E circoscrivendo tutte le possibili responsabilità soltanto ad esponenti di Cosa nostra, prescritti per aver solo tentato di minacciare lo Stato a suon di bombe. Ma andiamo con ordine.

La sentenza della Suprema corte – La sesta sezione della Suprema corte ha annullato senza rinvio le assoluzioni degli alti ufficiali del Ros dei carabinieri, Mario Mori, Giuseppe De Donno e Antonio Subranni, che in secondo grado erano stati giudicati non colpevoli perché il fatto non costituisce reato. E invece per gli ermellini i carabinieri devono essere assolti in via definitiva, ma per non aver commesso il fatto. Il fatto è il reato contestato, cioè la violenza e minaccia a un corpo politico dello Stato: l’accusa per i militari era di aver trasmesso fino al cuore delle Istituzioni – nel dettaglio erano i governi di Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi – la minaccia di Cosa nostra, cioè altre stragi e altri omicidi eccellenti se non fossero state allegerite le condizioni carcerarie dei mafiosi detenuti. Un reato che secondo i supremi giudici non è stato commesso da Mori e da De Donno, e per estensione anche da Subranni, che non aveva fatto ricorso contro la sentenza d’Appello. Se i carabinieri non hanno trasmesso la minaccia proveniente da Cosa nostra, allora la condotta dei mafiosi da consumata diventa soltanto tentata: ecco perché la Suprema corte ha riqualificato il reato per il boss corleonese Leoluca Bagarella e per Antonino Cinà, il medico di Totò Riina che aveva fatto da “postino” al papello, cioè la lista delle richieste avanzate dal capo dei capi in cambio di uno stop alle bombe. La riqualificazione del reato fa scattare la prescrizione (quantificata in 20 anni) delle condanne emesse in secondo grado a 27 anni per Bagarella e a 12 anni per Cinà. Per quanto riguarda Dell’Utri, accusato di aver trasmesso la minaccia mafiosa al governo di Silvio Berlusconi, la Corte si è limitata a far diventare definitiva l’assoluzione per non aver commesso il fatto, che era stata decisa in secondo grado e che la stessa procura generale chiedeva di confermare.

La storia del processo – A 15 anni dall’inizio delle indagini e a dieci dal rinvio a giudizio, si chiude dunque con due semplici prescrizioni (peraltro di mafiosi già detenuti) una vicenda giudiziaria delicata e complessa, che ha scatenato roventi polemiche politiche. Secondo l’originaria impostazione accusatoria della procura di Palermo, dopo la strage di Capaci e prima di quella di via d’Amelio venne aperta una Trattativa tra alcuni esponenti delle Istituzioni e Cosa nostra: l’obiettivo era fermare la furia omicida di Riina, che voleva vendicarsi dopo che le condanne del Maxi processo. Quell’interlocuzione, era sempre la ricostruzione dei pm, invece di placare il capo dei capi rafforzò la sua convinzione di poter convincere lo Stato a cedere alle sue richieste. Una persuasione operata col sangue. E quindi, dopo Giovanni Falcone, i mafiosi uccisero pure Paolo Borsellino e poi nel 1993 organizzarono le stragi di Firenze, Roma e Milano. Per questo motivo finirono alla sbarra quelli che all’epoca dei fatti erano i vertici del Ros dei carabinieri, imputati insieme ai boss mafiosi (oltre a Cinà e Bagarella c’erano anche Riina e Bernardo Provenzano, poi deceduti, e il pentito Giovanni Brusca, prescritto in appello) ed alcuni politici: con Dell’Utri anche Calogero Mannino, già assolto in via definitiva dopo essere stato processato con l’abbreviato, più Nicola Mancino, assolto pure lui ma per falsa testimonianza. Tutti gli altri rispondevano del reato disciplinato dall’articolo 338 del codice penale: violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. In pratica erano accusati di aver trasmesso ai governi in carica tra il 1992 e il 1994 le minacce provenienti dai vertici Cosa nostra: altre bombe e altre stragi se lo Stato non avesse messo un freno alla lotta alla mafia. In primo grado gli imputati erano stati tutti condannati a pene comprese tra i 28 e gli 8 anni: i mafiosi Bagarella e Cinà e i carabinieri Mori, De Donno e Subranni per aver recapitato il ricatto mafioso ai governi di Amato e Ciampi; il medesimo Bagarella e Dell’Utri per aver trasmesso le richieste al primo esecutivo di Berlusconi. Sentenza ribaltata in secondo grado, che aveva assolto tutti gli imputati (tranne i mafiosi) ma con motivazioni diverse. All’esame della sesta sezione penale c’era la sentenza di 2.791 pagine emessa dalla Corte d’Assise d’Appello di Palermo, che il 23 settembre 2021 aveva assolto “per non aver commesso il fatto” l’ex senatore Dell’Utri e “perché il fatto non costituisce reato” gli ex generali Mori e Subranni e l’allora capitano De Donno. Secondo i giudici del secondo grado i carabinieri hanno “agito avendo effettivamente come obbiettivo quello di porre un argine all’escalation in atto della violenza mafiosa che rendeva più che concreto e attuale il pericolo di nuove stragi e attentati, con il conseguente corredo di danni in termini di distruzioni, sovvertimento dell’ordine e della sicurezza pubblica e soprattutto vite umane”. Analisi che non viene condivisa dalla Suprema corte, secondo la quale i militari non hanno proprio commesso il reato contestato. Rispetto al primo grado erano state confermate solo la condanna di Bagarella (ridotta da 28 a 27 anni, visto che la minaccia al governo Berlusconi era stata riqualificata soltanto in un tentativo) e quella del medico Cinà. Adesso, visto che per i giudici i carabinieri non hanno trasmesso la minaccia dei mafiosi allo Stato, anche queste condanne di Bagarella e Cinà sono state riqualificate in tentata minaccia. E i mafiosi, unici condannati in secondo grado, sono stati prescritti.

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Le richieste della procura generale – La sentenza della Suprema corte rigetta dunque le richieste della procura generale, rappesentata dall’avvocato generale Pasquale Fimiani e dai sostituti pg Pietro Molino e Tomaso Epidendio: “Non può non convenirsi con la difesa sul fatto che la sentenza si affidi a una serie elementi carenti dei requisiti di gravità e precisione”, avevano detto nella requisitoria, che accoglieva solo il minima parte del ricorso della procura generale di Palermo, condividendo ampi stralci del ricorso delle difese dei carabinieri. Secondo i tre rappresentanti dell’accusa nella sentenza di secondo grado “manca di indicare il preciso contenuto delle richieste” rivolte da Cosa nostra a Giovanni Conso, ministro di Grazia e giustizia nei governi Amato e Ciampi: solo conoscendo quel contenuto, argomentano i magistrati, si sarebbero potute fare “valutazioni di merito essenziali per sostenere logicamente le conclusioni sull’integrazione del delitto”, valutazioni “che non risultano effettuate nella sentenza impugnata”. Per la procura di Palermo, infatti, nel novembre del 1993 l’ex guardasigilli Conso decise di far decadere oltre trecento provvedimenti di 41bis per altrettanti detenuti mafiosi, proprio in relazione alla minaccia proveniente da Cosa nostra con le stragi di Firenze, Roma e Milano, tra il maggio e il luglio dello stesso anno. “Risulta decisivo stabilire cosa sia stato detto precisamente al ministro e in che modo gli sia stato rappresentato – hanno sostenuto Fimiani, Molino ed Epidendio – posto che un conto è essere stato messo a conoscenza di una spaccatura all’interno di Cosa nostra che abbia determinato il ministro ad assumere autonomamente una iniziativa del genere (che non configura di per sé la minaccia qualificata nei termini che si sono ampiamente ricostruiti in memoria) nella speranza di interrompere la stagione delle stragi, altro è rappresentare al ministro stesso che Cosa nostra si era dimostrata disponibile ad interrompere l’azione stragista e di aggressione ad esponenti di spicco della politica e della magistratura italiana in caso di segnali di distensione quali appunto la mancata proroga di un cospicuo numero di provvedimenti ex articolo 41-bis adottati nei confronti di appartenenti alla mafia”. Per la procura generale un nuovo processo d’appello avrebbe dovuto rivalutare questo passaggio. Richiesta completamente respinta dalla Suprema corte, che con la sentenza di oggi ha messo la parola fine alla vicenda: secondo gli ermellini non ci fu una Trattativa ma solo un tentativo da parte di Cosa nostra di minacciare lo Stato con le bombe. Bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza per capire che tipo di ragionamento hanno fatto i supremi giudici.

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