Erano consapevoli che le bombe prodotte dalla Rwm Italia e inviate ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi erano destinate al conflitto in Yemen e che, quindi, avrebbero colpito anche dei civili. Nonostante ciò, hanno comunque deciso di rilasciare le autorizzazioni all’export, tra cui la famosa commessa da 20mila bombe (valore totale 411 milioni di euro, la più grande dal dopoguerra per il munizionamento pesante). Di civili ne sono morti tanti, alcuni proprio a causa degli ordigni prodotti in Italia. Ma questo non ha impedito al Gip di accogliere la richiesta di archiviazione presentata dai pm, la seconda dopo che il primo giudice l’aveva invece respinta chiedendo un approfondimento nelle indagini, per Michele Esposito, Francesco Azzarello e Alberto Cutillo, ex ed attuali direttori dell’Unità per l’autorizzazione del materiale d’armamento (Uama), e per l’amministratore delegato di Rwm, Fabio Sgarzi, accusati di abuso d’ufficio.

Una decisione che ha scatenato le proteste dei gruppi pacifisti, come Rete Italiana Pace e Disarmo, che in un comunicato ha contestato punto per punto le motivazioni del giudice. Le contestazioni partono dalla loro denuncia, insieme all’organizzazione yemenita Mwatana for Human Rights e al Centro europeo per i diritti costituzionali e umani (ECCHR), risalente all’aprile 2018 e nella quale si accusavano i vertici di Uama non solo di abuso d’ufficio, ma anche di omicidio colposo e lesioni personali, dato che partiva dall’uccisione con armi made in Italy della famiglia al-Ahdal, sterminata da un bombardamento della coalizione militare guidata da Riyad e Abu Dhabi nella notte tra il 7 e l’8 ottobre 2016. “La sentenza riconosce esplicitamente che, ‘a seguito degli interventi dell’Onu e poi del Parlamento europeo, in considerazione delle interrogazioni parlamentari sul punto e delle denunce delle ong’, i dirigenti della Uama erano ‘quindi certamente consapevoli del possibile impiego delle armi vendute dalla Rwm all’Arabia nel conflitto in Yemen a danno di civili’. Tuttavia ‘hanno continuato a rilasciare licenze per l’esportazione di armi alla società Rwm anche negli anni successivi, in violazione almeno dell’art. 6 e 7 del Trattato sul commercio delle armi (ATT) ratificato dall’Italia nell’aprile 2014, uno strumento giuridico vincolante, che stabilisce che uno Stato non deve autorizzare l’esportazione di armi se è a conoscenza del loro possibile utilizzo contro obiettivi civili'”.

Motivazioni che, sostengono le organizzazioni, non possono far altro che confermare le basi sulle quali si poggia la denuncia, rendendo così errata la decisione del Gip di non procedere anche con le accuse di omicidio colposo e lesioni personali. “Davvero non sappiamo se essere più stupiti o indignati per la decisione presa dalla Gip di Roma, in particolar modo per le motivazioni poste a sostegno della decisione di non procedere con il caso – ha commentato a Ilfattoquotidiano.it Francesco Vignarca, coordinatore delle campagne di Rete Italiana Pace e Disarmo – Il tutto nonostante la gravità delle accuse formulate e le prove convincenti raccolte nel corso di quasi cinque anni di indagini. Che hanno pienamente confermato, nei fatti, quanto le nostre organizzazioni della società civile prefiguravano nella denuncia originale e nei successivi documenti di analisi e prove inviati ad integrazione nel corso degli anni”.

Il giudice, riferiscono le organizzazioni, ha comunque affermato che non sia possibile stabilire la volontà degli indagati di procurare un vantaggio pecuniario o un ingiusto danno, visto che hanno ottemperato alla normativa italiana in materia operando sulla base dei pareri legalmente richiesti da altri uffici coinvolti nel procedimento di autorizzazione. Pareri che il Gip ha definito “sempre favorevoli”. Nella decisione di rigettare la richiesta d’archiviazione, però, il giudice per le indagini preliminari appena un anno fa ha specificato che “si tratta di pareri non vincolanti e, per ciascun ufficio, di una valutazione effettuata nei rispettivi settori di competenza, ferma restando la responsabilità della Uama in merito all’adozione del provvedimento finale”. Stava quindi all’ente di controllo mettere il timbro finale sulle autorizzazioni, indipendentemente dai pareri ricevuti. Inoltre, dicono le organizzazioni, “la decisione ignora palesemente le prove rilevanti contenute nel fascicolo, che erano state esplicitamente evidenziate dai ricorrenti nel loro ricorso. Queste prove dimostrano con precisione che tali pareri non erano sempre favorevoli al rilascio di una licenza, ma al contrario sottolineavano gli elevati rischi connessi alle autorizzazioni all’esportazione concesse alla Rwm. Uno dei tanti esempi, è il Protocollo n. 222098 del 12 novembre 2016 in cui la DGAP (Direzione Generale per gli Affari Politici e di Sicurezza) suggerisce a Uama di ‘avviare una pausa di riflessione’ in relazione alle licenze concesse a Rwm per l’esportazione di ordigni in Arabia Saudita”.

Vignarca afferma che, comunque, “l’elemento più grave è ovviamente che venga completamente ignorato, ai fini della decisione legale, ciò che la stessa sentenza riconosce esplicitamente. E cioè che grazie ai documenti ufficiali dell’Onu e del Parlamento europeo l’Uama fosse ‘certamente consapevole del possibile impiego delle armi vendute dalla RWM all’Arabia nel conflitto in Yemen a danno di civili'”.

Nel proprio comunicato, poi, le organizzazioni sottolineano un altro elemento che ritengono fondamentale: ossia che la Uama è un’autorità tecnica che formalmente non risponde a valutazioni di tipo politico. Nelle motivazioni, però, si legge che gli amministratori della Uama “hanno agito in conformità con l’orientamento della politica estera e di difesa dello Stato, quindi allo scopo di raggiungere uno scopo pubblico”. “Questa valutazione – si legge nella replica delle organizzazioni – trascura completamente il fatto che Uama è stata creata come autorità tecnica con l’obbligo di valutare le domande di autorizzazione all’esportazione di armi sulla base di un’analisi di rischio approfondita come richiesto dal quadro normativo applicabile. Queste norme sono state messe in atto proprio per proteggere i diritti umani nel quadro di un’industria intrinsecamente letale indipendentemente dall’orientamento della politica estera degli Stati”.

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