“Solide come una roccia“. Nemmeno “l’instabile situazione internazionale” scalfirà le relazioni tra Cina e Russia, Parola di Wang Yi, l’inviato speciale incaricato da Pechino di presentare i 12 punti del piano di pace cinese. Prima il bilaterale con l’omologo Sergej Lavrov, poi l’incontro al Cremlino con Vladimir Putin. Dopo la visita del capo della diplomazia cinese “l’amicizia senza limiti” tra Pechino e Mosca si conferma granitica. “Naturalmente, è stata discussa anche la crisi ucraina”: la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ha ringraziato la Cina “per la sua posizione costantemente equilibrata su questo argomento”. La visione dei due paesi sulle “attuali questioni internazionali coincide in gran parte”, ha aggiunto.

Eppure, al di là dei convenevoli, gli ultimi discorsi bellicisti di Putinper non parlare del ritiro di Mosca dal New Start – certo non facilitano l’auspicata mediazione di Pechino. “Non abbiamo mai parlato di un piano di pace”, ha precisato martedì l’ambasciatore cinese all’Onu, Zhang Jun, riferendosi al “position paper” in 12 punti rilasciato stamani. Nel rapporto la leadership capitanata da Xi Jinping ribadisce semplicemente la necessità di una soluzione politica alla crisi, limitandosi a condannare l’uso delle armi nucleari. Ancora la solita “ambiguità strategica”. Non che Pechino voglia restare a braccia incrociate. Ma da qui a rivestire i panni del “peacemaker” ce ne passa.

Per capire cosa abbia in mente la Cina occorre rileggere il recente documento sull’Iniziativa di Sicurezza Globale (ISG). Evitando di schierarsi nel conflitto, il testo promuove la “tutela della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti i paesi”, “rispetto degli scopi e dei principi della Carta delle Nazioni Unite”, e una risoluzione delle “differenze e controversie attraverso il dialogo e la consultazione”. Nulla di straordinario. Sono più o meno gli stessi concetti che guidano la politica estera cinese dall’epoca di Mao. Ma tra le righe, spunta l’allusione inedita a una possibile nuova strategia multilaterale. Letteralmente, si parla di “meeting di alto livello”. Proprio alcuni giorni fa il Wall Street Journal associava la visita di Xi a Mosca (prevista per aprile-maggio), all’intenzione di avviare “colloqui di pace multipartitici”. Una formula che, secondo Zhang Guihong, docente della prestigiosa Fudan University di Shanghai, potrebbe alludere alla nascita di una “versione cinese” della Conferenza sulla sicurezza di Monaco.

Ecco che la recente svolta pacifista rispecchia anche le ambizioni personali di Pechino: una mediazione nella guerra permetterebbe alla Cina di presentarsi alla comunità internazionale – soprattutto al Sud globale – come un attore responsabile, in grado di tutelare gli interessi di quei paesi che non si sentono rappresentati dagli Stati Uniti. Non a caso (a parte l’Onu) la Isg non prevede il coinvolgimento di alcuna organizzazione occidentale, bensì dell’Asean (che coinvolge i Paesi del sud-est asiatico), dell’Unione Africana, e della Lega Araba.

E’ un nuovo match del braccio di ferro tra Washington e Beijing Consensus, tra modelli economici e visioni del mondo concorrenziali. “Insieme sosteniamo il multipolarismo e la democratizzazione nelle relazioni internazionali”, ha dichiarato Wang Yi incontrando Lavrov, “preserveremo la tendenza positiva nello sviluppo delle relazioni tra grandi potenze”.

Questo è il punto: Pechino e Mosca condividono la stessa visione disincantata dell’ordine internazionale definito dall’Occidente alla fine della seconda guerra mondiale. È per “autodifesa”, non per compiacere Putin, che i media cinesi continuano a rilanciare la disinformazione russa. Martedì Zhang Jun è andato oltre, chiedendo ufficialmente un’indagine Onu sul presunto sabotaggio americano del Nord Stream. Pechino non ha dimenticato le accuse dell’intelligence statunitense sul laboratorio di Wuhan, e spalleggiando la propaganda di Mosca ricambia lo sgarro.

Se quella in Ucraina è una “guerra per procura”, lo scontro politico-economico tra Cina e Stati Uniti viene spesso considerato “una nuova guerra fredda”. Termini impropri, forse anacronistici, che tuttavia restituiscono l’idea di come “l’effetto farfalla” tra le due sponde del Pacifico abbia sempre più spesso un impatto globale.

Mentre si discute di una “pax sinica” tra Mosca e Kiev, proprio in questi giorni Cina e Russia sono impegnate in esercitazioni militari congiunte a largo di Durban, in Sudafrica. Già alla seconda edizione, l’operazione “Mosi II” sta creando non pochi problemi al governo di Matamela Cyril Ramaphosa, già bacchettato dalle cancellerie europee per l’astensione al voto Onu del marzo scorso.

Il fatto è che Mosca e Pechino non sono le sole a ritenere “superato” il protagonismo occidentale nella definizione degli equilibri internazionali. E il rinnovato interesse di Biden per il continente dimenticato viene accolto nelle capitali africane con pragmatico ottimismo, ma anche con una certa diffidenza. Dopo le spese sconsiderate degli ultimi vent’anni, le pile di debiti insoluti hanno messo in fuga i prestiti cinesi. E i dollari americani giungono al momento giusto. Ma la condizionalità che da sempre blinda gli investimenti statunitensi all’accettazione di requisiti ideologici (buon governo e democrazia) finora ha permesso alla Cina di conservare nel continente una posizione pressoché inamovibile. Se nell’Indo-Pacifico Washington può fare leva sul condiviso timore per il militarismo cinese, in Africa (e sempre più anche in America Latina) le richieste politiche americane indispongono non poco i governi locali. Che piaccia o no, in una parte consistente del mondo il pragmatismo illiberale della Cina conserva un fascino enorme.

Gli Stati Uniti rincorrono Pechino praticamente ovunque. Oppure tentano di allungare il passo per mantenere un vantaggio che si assottiglia rapidamente. Prendiamo l’alta tecnologia: dal CHIPS Act alle sanzioni contro i colossi cinesi dei semiconduttori, l’amministrazione Biden ha strumentalizzato la sicurezza nazionale per scongiurare un sorpasso della Cina nelle industrie strategiche. E’ quello che Politico definisce un “ripensamento fondamentale nell’approccio del governo americano al progresso tecnologico della Cina e, in definitiva, al suo sviluppo economico.” Secondo il quotidiano fondato a Robert L. Allbritton, “mentre i politici statunitensi in precedenza si accontentavano di gestire la crescita tecnologica della Cina e assicurarsi che rimanesse indietro di qualche generazione, ora i funzionari della sicurezza cercano di portare lo sviluppo di Pechino – in particolare nei chip e nell’informatica ma presto anche in altri settori – più vicino a un punto morto.” Le prospettive per il futuro non sono incoraggianti. La recente saga dei palloni-spia – montata dal Congresso – dimostra come la politica interna abbia ormai un peso determinante sull’agenda cinese della Casa Bianca, a prescindere da chi vincerà le prossime presidenziali.

Cosa c’entra tutto questo con l’Ucraina? Basti pensare che solo il giorno prima di pubblicare il concept paper sulla ISG il ministero degli Esteri cinesi ha rilasciato un corposo documento dal titolo “L’egemonia degli Stati Uniti e i suoi pericoli”. Analizzata la strategia statunitense nei campi “politico, militare, economico, finanziario, tecnologico e culturale,” il rapporto finisce per bollare l’America come “un pericolo per la pace e la stabilità nel mondo e il benessere di tutti i popoli.” Mentre in Occidente risuona minaccioso il monito “oggi l’Ucraina, domani Taiwan”, a Pechino – a torto o a ragione – l’impressione è che un cedimento della Russia oggi porterà una crociata contro la Cina domani.

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