Le promesse non ci bastano più. Ora i leader mondiali devono agire”. Roseline Isata Mansaray viene da un piccolo paese sulla costa della Sierra Leone. Da quando è piccola, la sua comunità è costretta a convivere con gli effetti della crisi climatica. Ogni volta che piove, il mare si alza e causa terribili inondazioni. “Una di queste ha portato via mia nonna. Non siamo riusciti a trovare il suo corpo per più di una settimana – racconta – Per questo ho deciso di lottare per la giustizia climatica”. Ora è alla Cop 27, la Conferenza sul clima delle Nazioni Unite, in Egitto, come fondatrice di Fridays for Future Sierra Leone. Insieme a centinaia di attivisti Mapa (Most affected people and areas) vuole raccontare la sua storia e pretendere “l’attenzione” del mondo. L’Africa è responsabile solo dell’1% delle emissioni di gas serra globali, eppure subisce gli effetti più catastrofici del surriscaldamento globale. La Cop 27 di Sharm el-Sheikh è la prima vera occasione internazionale che mette al centro la finanza climatica, i piani di mitigazione e la transizione ecologica nel continente. È però anche il primo negoziato in un Paese che, da anni, è al centro delle polemiche per le violazioni dei diritti umani. Le manifestazioni “sono state fortemente limitate – racconta il nigeriano Goodness Dickson, 29 anni – Mi sento derubato di un diritto”. Anche la protesta di sabato 12 novembre, in solidarietà all’attivista Alaa Abdel Fattah – in sciopero della fame dall’inizio della Cop – si + potuta tenere solo davanti alla sede delle Nazioni Unite. È la prima volta che questo succede nella storia delle Conferenze sul clima. Questo ha portato molti attivisti, anche italiani, a pensare di non partecipare. “Abbiamo deciso però di sporcarci le mani e cercare di invertire il passo – racconta Andrea Pesce di ZeroCO2 – Anche per sottolineare il legame tra clima, ambiente e diritti”.

I più colpiti dalla crisi climatica – Prestiti da amici, crowdfunding per l’accredito e il passaporto e poi il balletto assurdo della burocrazia, “tutto senza il sostegno dei nostri Stati”. Gli attivisti Mapa per arrivare alla Cop 27 hanno dovuto affrontare molte difficoltà. Il loro numero è comunque minore rispetto a quello dei lobbisti del petrolio e del gas (630 delegati). Le loro esperienze però sono rivelatrici di tanti aspetti diversi della crisi climatica in Africa. “Mio padre ha perso tutto il suo bestiame a causa della siccità. È stato molto doloroso”, racconta Mana Omar, 27 anni, fondatrice dell’ong Spring of the Arid and semi-arid lands (Sasal). Durante la laurea in meteorologia, ha iniziato a collegare quello che imparava a scuola con ciò che succedeva nella sua comunità. Così ha deciso di diventare “la voce dei pastori kenyani”. Severin Togonon, 27 anni invece ha assistito alla deforestazione del suo Paese – “il mio villaggio dieci anni fa era uno dei più verdi del Mali” – e all’esodo di centinaia di suoi coetanei. Per questo nel 2020 ha avviato il progetto Eeye (Educazione ambientale e potenziamento dei giovani): “Dal governo mi aspetto poco, ma voglio che i giovani conoscano cosa sta succedendo. Quante più persone avranno consapevolezza della crisi climatica, quanto più i leader non potranno ignorarci”, spiega.

C’è poi chi ha visto avanzare la povertà, le carestie e la disoccupazione, chi “la desertificazione, la progressiva scomparsa del lago Chad e i roghi di palme nel nord del Paese”, come Julienne Denembye, 28 anni, del movimento Rise Up del Chad. Il viaggio nell’ambientalismo della giornalista zambiana Jessica Bwali, che lavora con l’ong Tearfund, è iniziato nel 2019: “Spesso le persone mi chiamavano, nel mio programma radiofonico, lamentandosi dei continui blackout. Alcuni imprenditori stavano chiudendo. Studiando ho scoperto che era colpa della siccità”. La carenza idrica infatti ha abbassato il livello della diga Kariba, una delle più grandi del mondo, mettendo in crisi le centrali idroelettriche che forniscono Zambia e Zimbawe. “Ora sono qui alla Cop 27 per parlare per chi è in prima linea contro la crisi climatica ma non ha voce”, afferma Bwali.

Non solo i Loss and damage – “Siamo qui per ricordare ai leader mondiali quei piani di adattamento e mitigazione che sono sulla loro bocca da anni, mentre centinaia di persone perdono la casa e la vita”, afferma Togonon. “Da soli non possiamo affrontare la crisi climatica e ridurre le nostre emissioni – aggiunge Roseline Mansaray – Ci servono le conoscenze e le tecnologie (come sistemi di allerta precoce e barriere per gli eventi naturali, nuove tecniche agricole) per adattarci e prevenire i danni nelle nostre città. Questo è possibile solo tramite i finanziamenti climatici” dal Nord del mondo. “Ci aspettavamo che le nazioni ricche pagassero la loro quota, dopo la Conferenza di Glasgow lo scorso anno, ma finora non è successo – afferma Bwali – Un buon inizio sarebbero i 100 miliardi di dollari all’anno che anno promesso. Il conto è scaduto da 2 anni”. Questo però deve essere solo l’inizio: “ieri il gruppo di negoziatori africani ha stimato che il nostro continente avrebbe bisogno di 1.300 miliardi di dollari all’anno” per diventare resiliente alla crisi ecologica.

“Siamo comunque felici che i fondi per i loss and damage – una sorta di assicurazioni per i danni climatici – siano finalmente stati messi all’ordine del giorno” spiega Mana Omar. Scozia, Germania, Austria e Danimarca si già impegnate su questo fronte, il loro contributo però rischia di essere “una goccia nell’oceano” rispetto alle grandi sfide che attendono gli stati africani. “La scarsità di risorse, la moltiplicazione dei rischi per la salute e la perdita accelerata di biodiversità ci separano da qualsiasi piano per una giusta transizione ecologica” afferma Julienne Denembye. Oltre a fornire, secondo alcuni dei suoi colleghi, un pretesto ai governatori africani “per non agire”. In ogni caso la finanza climatica deve significare “continuando a usare i combustibili fossili, spostando le imprese più inquinanti nel sud del mondo, senza darci la possibilità di beneficiare dei loro introiti”, dice Goodness Dickson.

Il paradosso – “Quando è stato rapito e torturato Giulio Regeni, io ero uno studente a Bologna. Da allora mi porto dietro un senso di rabbia e ingiustizia”. Andrea Pesce ha 28 anni e dal 2018 gira il mondo – dalla Patagonia, alla Tanzania, all’Italia – con i progetti di riforestazione ad alto impatto sociale di ZeroCO2. La Cop 27 per lui era l’occasione di spiegare il suo modello di “cooperazione con le comunità, educazione ambientale e gestione sostenibile”. A mettere in dubbio la sua scelta è stato però il fatto che a ospitare la Conferenza sul clima fosse il regime egiziano di Al Sisi, con 60 mila dissidenti imprigionati nelle sue carceri per reati d’opinione, secondo la ong Human Rights Watch. “Ho deciso di andare perché ci serve occupare gli spazi che ci vengono dati. Non possiamo arroccarci sulle posizioni comode, per poi lamentarci di non aver partecipato e non essere riusciti a dettare la linea”, spiega.

Nonostante questo, per lui le contraddizioni rimangono evidenti. “Hanno messo i padiglioni il più possibile lontano dal Cairo, in una località di turismo massivo – spiega – Addirittura mentre ci stavano portando in un resort bellissimo ci hanno detto ‘Sharm è sicura, non ci sono gli egiziani. Potete essere felici e anche salvare il pianeta’ , hanno aggiunto dopo una risata”. “Hanno voluto fare la Cop qui per darsi una pennellata di verde. La differenza con Glasgow si sente. Lì eravamo 150 mila al corteo e potevamo protestare liberamente – concorda Giacomo Zattini, 26 anni, di Fridays for Future Forlì, da Sharm – Però gli attivisti africani con cui ho parlato sono contentissimi che i negoziati si facciano in Egitto. È l’occasione per dare puntare l’attenzione mediatica su queste migliaia di attivisti egiziani e per incanalare la nostra protesta per il clima in quella per i diritti umani. L’una non esiste senza l’altra”.

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