Dal 3 ottobre torna la settimana nazionale dedicata alla dislessia. In Italia sono oltre 524mila i bambini e i ragazzi cui è stato diagnosticato un disturbo dell’apprendimento. Stiamo parlando di circa il 5% degli studenti: una percentuale – secondo il presidente dell’Associazione italiana dislessia, Andrea Novelli – collocata nella soglia minima rispetto al manuale diagnostico statistico americano che prevede un’incidenza dal 5 al 12% della popolazione scolastica.

La maggior parte dei ragazzi (dato raccolto all’anno scolastico 2020/2021) è dislessica (198.128); seguono i disortografici (117.849); i discalculici (108.577) e infine i disgrafici (99.769). Ma c’è un altro dato da prendere in considerazione: negli ultimi undici anni si è passati dallo 0,9% degli studenti dell’anno scolastico 2010/2011 al 5,4% nel 2020/2021.

Nell’arco degli ultimi sette anni, si è assistito ad un incremento del numero di certificazioni per ciascuna tipologia di disturbo: le certificazioni di dislessia sono salite da circa 94mila a oltre 198mila; le certificazioni di disgrafia da 30 alle oltre 99mila unità. Anche il numero di alunni con disortografia sono aumentati notevolmente, passando da circa 37 a 117mila e gli alunni con discalculia da 33 a 108mila. Il numero delle diagnosi dei disturbi specifici dell’apprendimento ha visto nel corso del tempo un costante e progressivo incremento con l’emanazione della Legge 170/2010.

Ma per il mondo dei Dsa la strada è ancora in salita, perché se da una parte la scuola ora è costretta di fronte ad una diagnosi a fare dei “pdp” ovvero dei “piano didattici personalizzati” manca spesso la loro concretizzazione, l’applicazione didattica.

Una denuncia che arriva da Filippo Barbera, insegnate dislessico, disgrafico, discalculico autore del libro Ti insegno come io ho imparato (edizioni Erickson): “L’uso degli strumenti compensativi avviene a singhiozzo. Magari, per fare un esempio, viene usato il pc come previsto ma non c’è dietro un insegnamento a come adoperarlo in ottica compensativa. Il passaggio da fare è lavorare su una progettualità didattica nell’assegnazione di questi strumenti. Serve una maggiore formazione dei docenti. Non serve solo sapere come scrivere un Pdp ma come realizzarlo”.

Non solo. Secondo l’insegnante vicentino ci sono genitori ancora costretti a fare battaglie per ottenere gli strumenti compensativi. La questione didattica è il fulcro del discorso di là dei numeri. Dal momento in cui viene eseguita una diagnosi (che va fatta solo a partire dalla fine della seconda primaria perché il bambino è giunto al termine del percorso della letto- scrittura) la scuola deve fare il “pdp” che dev’essere formulato attraverso un lavoro collegiale del team, alle elementari o del consiglio di classe, nelle secondarie, e poi dev’essere condiviso con le famiglie “ma purtroppo, spesso – spiega Barbera – viene solo letto e consegnato a mamma e papà anziché costruito con loro”.

In questo documento sono stabiliti gli strumenti compensativi; il tipo di didattica da attuare; gli aspetti valutativi. Da chiarire: lo studente fa “il programma” (se vogliamo usare un termine ormai desueto ma comprensibile a tutti) uguale al resto della classe ma personalizzato. Il lavoro da fare è diverso a seconda del disturbo diagnosticato. È difficile generalizzare, perché tutto va studiato in base all’età e all’individuo ma per quanto riguarda la dislessia vanno fatte valutazioni tecniche sulla rapidità di lettura e sulla correttezza, in modo da comprendere se ricorrere alle sintesi vocali o a strumenti transitori, come i segnalibri colorati, segnariga. “Si possono togliere – dice Barbera – alcuni compiti previsti per la classe. La valutazione dev’essere semplificata o eseguita con gli strumenti compensativi. A volte basta anche un font più leggibile. Utilissimi possono essere i libri digitali; il computer con video scrittura per i temi; le mappe concettuali o mentali; lo scanner che trasforma il testo scritto a testo vocale”.

Per quanto riguarda la disortografia-disgrafia, il professore cita i programmi di video scrittura che hanno il correttore ortografico, ancora la sintesi vocale per sentire dove si fanno gli errori. “Anche il percorso di dattiloscrittura aiuta molto”. Infine la discalculia che ha diversi profili: “In questi casi può essere utile la calcolatrice ma molte difficoltà sono sulle procedure, perciò possono essere utili schemi guida, formulari se c’è il problema della memorizzazione”, sottolinea l’autore del libro.

Resta, poi la questione della lettura dei dati sui disturbi d’apprendimento. Nel corso degli ultimi due anni scolastici, gli alunni a cui è stato diagnosticato un disturbo d’apprendimento sono 318.678 nel 2019/20 e 326.548 alunni nel 2020/21; si è passati dal 5,3% e al 5,4% del numero complessivo dei frequentanti. Da un punto di vista territoriale, le diagnosi sono state rilasciate più frequentemente nelle regioni del Nord Ovest (7,9%). Per le regioni del Mezzogiorno tale percentuale risulta estremamente più contenuta, pari mediamente al 2,8%. Come già registrato negli anni precedenti, le percentuali più contenute sono presenti in Calabria e Campania, con valori inferiori al 2%, e in Sicilia con il 2,2% nel 2019/2020 e il 2,3% nell’anno scolastico successivo. Considerando i singoli gradi di istruzione si registra che gli alunni con dislessia sono pari all’1,3% del numero complessivo degli alunni nella scuola primaria, al 3,7% nella scuola secondaria di I grado e al 3,8% nella scuola secondaria di secondo grado.

Infine, vanno puntati gli occhi sugli alunni “a rischio dsa”: nella scuola dell’infanzia e nei primi due anni della scuola primaria, a seguito di test specifici effettuati presso strutture sanitarie, vengono individuati probabili disturbi di apprendimento che tuttavia non possono essere considerati ancora come diagnosi. Nell’anno scolastico 2019/2020 si tratta complessivamente di 5.572 alunni, corrispondenti allo 0,23%, e per il 2020/2021 di 5.091, pari allo 0,22% del numero complessivo di alunni frequentanti la scuola dell’infanzia e i primi due anni di scuola primaria.

Numeri che fanno saltare sulla sedia il pedagogista Daniele Novara, che considera “sovrastimati” questi dati: “Nel 2017 ne ho parlato nel mio libro Non è colpa dei bambini, ma anche il neuropsichiatra Michele Zappella è d’accordo con me: spesso un normale ritardo della lettura viene indebitamente certificato come dislessia. È un equivoco”. Il pedagogista raccomanda prudenza nelle diagnosi: “Si rischia di dare etichette improprie a bambini che fanno poi fatica a liberarsene. La scuola anziché guardare i progressi neo-valutativi continua a usare metodologie arcaiche”. Secondo Novara ci sono famiglie che partono dal presupposto che la certificazione può facilitare il percorso scolastico al figlio e ricorrono a centri privati che diagnosticano con troppa facilità: “È un business. Nel Nord questi centri proliferano con test senza alcuna base scientifica e senza alcun intervento normativo. La differenza infantile va rispettata; i bambini non devono essere stigmatizzati, mettere etichette è un’ipoteca sulla vita”.

Non la pensa così Andrea Novelli che, pur ammettendo la presenza di centri di accreditamento privati, ricorda ad esempio che in Emilia Romagna l’80% delle diagnosi sono fatte da strutture pubbliche: “Dal 2019 al 2021, non c’è stata una differenza significativa, stiamo parlando di percentuali minime. Dal 2011 abbiamo un aumento progressivo di casi ma il dato si è stabilizzato nel 2017 attorno al 5% e nemmeno negli ultimi anni di Covid c’è stato un incremento consistente. Semmai le percentuali in alcune Regioni sono sottostimate. Resiste in alcune aree del Paese un fattore culturale: il disturbo non è un handicap, è un modo diverso di apprendere, di pensare che spesso può essere ricchezza. La diagnosi non è una medicalizzazione”.

Ora l’Associazione italiana dislessia punta a un nuovo obiettivo: in Italia ci sono ventimila studenti universitari con dislessia o altri disturbi specifici dell’apprendimento ma a molti di loro, spesso, vengono negati gli strumenti e le misure compensative che gli spetterebbero di diritto, ostacolando il loro percorso accademico e impedendogli di realizzarsi pienamente. “Abbiamo deciso di lanciare una petizione su change.org – spiega il presidente – per chiedere al Governo e al Parlamento di approvare subito una legge che garantisca pari diritti e opportunità agli studenti universitari con dsa”.

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