Pubblichiamo un estratto del libro ‘Visti da vicino. Falcone e Borsellino come nessuno li ha mai raccontati‘ di Francesco Viviano e Alessandra Ziniti, in libreria per PaperFirst nell’edizione aggiornata e ampliata (prezzo 16,00€). Il libro, a 30 anni da Capaci e via d’Amelio, racconta l’aspetto più intimo dei due magistrati con i racconti dei loro amici e colleghi più stretti. L’estratto che segue è tratto dalla nuova introduzione inedita, un dialogo degli autori con Fiammetta Borsellino, figlia minore del magistrato assassinato il 19 luglio del 1992.

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A trent’anni dalla strage via D’Amelio Fiammetta Borsellino, figlia di Paolo, è netta nel giudizio: “Per noi ormai sono chiare le connivenze, le omissioni, le menzogne, i depistaggi, le condotte sbagliate di uomini e donne delle istituzioni che non hanno avuto rossore a presentarsi in un’aula di tribunale e a balbettare monosillabi e sfilze di ‘non ricordo‘. A essere offesi non siamo solo noi familiari ma l’intelligenza dell’intero popolo italiano. Lo diceva anche mio padre che il fatto di non riuscire ad arrivare a una sentenza, che non si riescano a trovare le prove, non significa che non ci siano colpe. E credo che per politici o magistrati anche avere una sola ombra sulla testa sia una colpa. Per me presenziare alle udienze dei processi per la strage di via D’Amelio è stato come un affacciarsi alla miseria umana, di magistrati e poliziotti che si vantano di successi che non hanno mai conseguito e non ricordano nulla di vicende che avrebbero dovuto segnare le loro vite ed essere scolpite nella loro memoria, impegnati come sono a difendersi spasmodicamente. Dopo trent’anni ormai miracoli non ce ne aspettiamo più, l’evidenza per noi è già una verità e una consapevolezza ma certo me ne sarei andata da quel Palazzo di giustizia con uno stato d’animo diverso dal disgusto per questa miseria umana. Una consapevolezza che, d’altra parte, aveva anche mio padre quando parlava a mia madre del Palazzo di giustizia di Palermo come di un covo di vipere. Un giorno le disse: “La mafia mi ucciderà quando i miei colleghi glielo permetteranno, quando Cosa nostra avrà la certezza che sono rimasto davvero solo”».

Che uomo Paolo Borsellino, che padre. Che vita da eroe votata al sacrificio massimo, così diversa da quella di tutti gli altri, certo, ma anche che vita da uomo comune. Si sforzava terribilmente di farlo. Per sua moglie, e per i suoi figli innanzitutto. Ma uomo comune alla fine non è mai stato, neanche sotto la toga. Può stupire sapere che quando è morto nel suo conto corrente in banca c’era solo un milione di vecchie lire. E non certo perché facesse una vita da nababbo. Ma forse perché di famiglie da portare avanti, oltre a quella composta da sua moglie e dai suoi figli, ne aveva altre, quella di una sorella rimasta sola giovanissima con ben sette figli innanzitutto e, in qualche modo, anche quelle di alcuni uomini delle forze dell’ordine che gli stavano accanto. “Il senso della famiglia, della solidarietà, della generosità è un tratto che ha sempre contraddistinto mio padre”, racconta Fiammetta. “A lui del denaro non importava nulla, aiutava chi poteva e chiunque glielo chiedesse. Si è preso cura della famiglia di mia zia Adele e dei miei sette cugini. Mio padre aveva sicuramente una dedizione particolare per questa sorella e i suoi figli. Il suo era un sostegno a 360 gradi, non certo solo economico, un atteggiamento quasi paterno. Casa mia è sempre stata un porto di mare, papà non ha mai chiuso la porta a nessuno. Era una persona molto umana, anche nel suo lavoro. Ed è questa sua umanità l’origine dei suoi successi. Sosteneva persino nella difficoltà alcuni poliziotti e alcuni collaboratori di giustizia di cui aveva preso a cuore le sorti”.

Trent’anni dopo, Fiammetta Borsellino riesce ancora a tirare fuori dal pozzo dei ricordi episodi del tutto inediti. Perché – spiega – c’è anche una sorta di allenamento della memoria serena portato avanti con costanza giorno dopo giorno grazie al modo di vivere ed elaborare il lutto. “Dipende anche da come vivi la perdita. La magia per noi è stata quella di affrontarla in modo naturale. Noi”, spiega, “abbiamo sempre condiviso la nostra storia con il sorriso e la gioia, ogni aneddoto è una felicità, non abbiamo mai vissuto nel culto della morte e d’altronde mio padre era un amante della vita. Questo atteggiamento ha sempre prevalso ed è la nostra forza ed è il motivo per cui ci siamo sempre concentrati sulla vita che va avanti per non rimanere cristallizzati nella cappa della morte”. E allora ecco venir fuori dal cilindro dei ricordi “la tragedia dei Duran Duran”. “Fu il litigio più grosso che ebbi con mio padre. C’era un concerto in programma a Palermo, allo stadio, e io tenevo moltissimo ad andare ma lui non mi diede il permesso, era preoccupato che non ci fossero le condizioni di sicurezza. Che litigata!”.

Fammetta non usa mezzi termini: “Fin quando stavamo zitti, il salone di casa nostra era pieno di presunti amici di mio padre che venivano a raccontare balle a mia madre. Da quando ho deciso di parlare, di dire senza peli sulla lingua che le responsabilità delle stragi sono a più livelli, che c’è stata la mano armata di Cosa nostra ovviamente ma anche chi a questa mano armata ha spianato la strada, consegnando la testa di mio padre su un piatto d’argento, la famosa convergenza di interessi di cui parlava Falcone“, rivela Fiammetta, “da quel momento ci siamo improvvisamente ritrovati soli. Di tutto quello stuolo di magistrati che per vent’anni ci è stato attorno non si vede più nessuno. Qualche settimana fa sono andata a Marsala, la città dove mio padre è stato procuratore, a cui lui era molto legato e che a lui è rimasta molto legata. Sono andata per l’intitolazione di una strada a Emanuela Loi (una degli agenti di scorta uccisi in via D’Amelio) e sono rimasta da sola. Nessuno, dico nessuno, dei magistrati presenti mi ha avvicinato anche solo per salutarmi. Ma a me sta bene così. Anzi, io oggi mi sento ricca, non sola, per la grande relazione che ho con tantissima gente onesta, vera”.

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Il podcast Mattanza presentato su RTL 102.5 News. Pipitone: “Il caso Borsellino 30 anni dopo è ancora aperto, mancano molti pezzi del puzzle”

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