L’acqua come la salute: ne parli quando manca. E un po’ come la salute non pensi mai che possa mancare. Ma se manca la salute si riesce di solito a risalire ad una causa prima, se invece manca l’acqua – come accade oggi – è un po’ più difficile risalire alle responsabilità. O meglio ci siamo tutti dentro: “nessuno si senta escluso”.

Chissà, si potrebbe cominciare andando indietro nel tempo, al boom economico, durante il quale cambiarono le abitudini alimentari degli italiani e la carne ed i formaggi si trasformarono da lusso in abitudine. E per sostenere il mercato in crescita si moltiplicarono le coltivazioni non già in funzione diretta del consumo umano, ma dell’alimentazione degli animali negli allevamenti e poi del consumo umano, con conseguente uso dell’acqua per specie vegetali fortemente bisognose della risorsa, come mais e leguminose. In Italia le produzioni agricole assorbono l’85% dell’impronta idrica nazionale, e comprendono l’uso di acqua per la produzione di colture destinate all’alimentazione umana e al mangime per il bestiame (75%), e per pascolo e allevamento (10%). E gli allevamenti di bovini e suini sono proprio in quel Nord d’Italia oggi maggiormente colpito dalla siccità.

Ma la nostra responsabilità va oltre il menù, se è vero che “ogni italiano ha un’impronta idrica complessiva (ossia derivante dal consumo di prodotti agricoli e industriali, sommati all’uso dell’acqua a livello domestico) pari a 6.300 litri giornalieri circa (pari a quasi 700 casse da 6 bottiglie di acqua da 1 litro e mezzo o di 42 vasche da bagno).”

Quindi c’è la responsabilità individuale. Poi c’è quella del mondo agricolo, che si potrebbe anche riassumere in un intervento di Roberto Marchesini su Facebook del 20 giugno: “Le organizzazioni dell’agricoltura si lamentano della siccità e invocano ristorni. Si dimentica tuttavia che proprio un’agricoltura distruttiva negli ultimi cinquant’anni ha trasformato la pianura padana in un deserto attraverso distruzione delle siepi arboree e arbustive, subsidenza per macchine agricole, montagne di pesticidi ed erbicidi, alterazione dell’alveo dei fiumi, non attenzione ai fossati, distruzione dei maceri, arature profonde, inquinamento delle falde con liquami. Forse dovrebbero semplicemente recitare il mea culpa”. Ma la responsabilità del mondo agricolo va ben oltre, e coinvolge anche la scelta suicida di ampliare le monocolture a danno della biodiversità, così come accade con la coltivazione del Prosecco o dell’Alta Langa, sempre per rimanere al nord.

E poi ci sono i politici (ma chi li ha votati? e qui si torna alla responsabilità individuale), quei politici che chiedono lo stato di calamità ma che costituiscono essi stessi la calamità. Politici ai diversi livelli, che fanno di tutto per disperdere la preziosa risorsa. Dal non fare nulla per eliminare o ridurre le perdite degli acquedotti, al cementificare ed asfaltare il suolo agricolo; dal permettere all’industria del legno di tagliare boschi anche vetusti al promuovere il solare a terra. Fino alla criminale sponsorizzazione di buchi nelle montagne con dispersione di falde acquifere e disseccamento delle sorgenti.

Si pensi al disastro del Mugello o al fatto che la realizzazione della linea ad alta velocità Torino-Lione potrebbe determinare ogni anno fuoriuscite d’acqua provenienti dalle falde paragonabili al fabbisogno idrico di 600mila persone. E poi, certo, c’è l’iperoggetto, il riscaldamento globale, con disseccamento naturale di sorgenti e riduzione dei ghiacciai. Una classe politica che anziché fare mea culpa degli errori e cambiare strategie, magari pensa a nuove opere come i bacini di accumulo.

Insomma, come si dice, ce n’è per tutti e davvero non si vede cosa possa cambiare in quel futuro, visto che il presente è già distopico.

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Agrigento, la provincia dove la crisi idrica non è (solo) colpa della siccità. E il passaggio dal privato al pubblico non ha risolto il problema

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