Per qualcuno sarà una passeggiata, un pro forma, una pura formalità, ma per qualcun altro le sei ore del tema di italiano alla maturità sono un autentico supplizio. Sono l’incubo con cui fare i conti per i prossimi trent’anni, sono una infinita seduta psicanalitica con se stessi, sono un’eterna partita a scacchi senza sapere dove diavolo ficcare quella torre. Sono forse l’ultima occasione per starsene chiusi in una stanza, in silenzio, senza cellulare a vedersela con un foglio bianco.

E bisogna uscirne vincitori, quindi ecco cinque più una regole di cui nessuno sentiva la necessità, ma quando uno è disperato si legge pure i commenti sui forum sul funzionamento dell’aspirabriciole a manovella.

Regola numero uno: leggere. Arriveranno una montagna di fogli, le tracce ormai non sono più brevi enunciati da commentare ma si articolano in una selva di spunti e stimoli. Lo so che uno vorrebbe dare una scorsa, contare fino a tre e partire ma la cosa migliore invece è perdere un po’ di tempo e leggere bene tutte le tracce, prendendosi il diritto di provarne una e poi cambiare idea, stilare due scalette e tre mappe e vedere quale sembra più promettente. Non è indecisione, è valutazione del rischio.

Regola numero due: non maledire. C’è la tentazione di trascorrere una mezz’oretta maledicendo il fato, chi ha inventato la scuola, la prof di italiano che ha pestato per tre anni sull’analisi dei testi del Novecento e poi trac! esce un canto del Paradiso di Dante, chi se lo ricorda, il Presidente di commissione che tamburella con la penna sul banco. Ci saranno i decenni a venire per prendersela con questi accadimenti, ma come disse Aragorn, non è questo il giorno.

Regola numero tre: non dare niente per scontato. Mai scartare una traccia solo perché “oh, io ho sempre fatto l’analisi del testo, le altre manco le leggo”. Sai mai cosa tirano fuori dal cilindro al ministero, con questo caldo poi, magari esce un tema sui Manga e la cultura giapponese e quello nel banco in fondo che se li è letti di nascosto in classe per tre anni fa un temone.

Regola numero quattro: rileggere. Nella mente, tutto quanto, come se si leggesse a voce alta. Come se fosse una notizia del tg. Se si va in carenza d’ossigeno, rileggere da capo e mettere qualche punto, qualche virgola, addirittura quel misterioso punto e virgola che tutti maneggiano poco. Occhio alle parentesi (che si perde il filo in un attimo), via i punti esclamativi! E sempre attenzione a dosare quelli interrogativi: vorremo mica riempire il testo di domande retoriche? E se alla lunga stufassero? E se non dessero incisività al discorso?

Regola numero cinque: provare pietà per chi corregge. In un’aula assolata con il microclima di Mordor. Quindi scrivere chiaro, ordinato, non come certe ricette del medico di base, che poi tocca mettersi in quattro a studiare il manoscritto e chiedere un consulto alla bidella “scusi? Secondo lei qui cosa c’è scritto? E’ una A o una O? E’ un apostrofo o una macchia della penna?” e via di ipotesi.

Regola bonus: il finale. Come si finisce un tema? Come si chiude, come si conclude, come si fanno partire i titoli di coda? Non partono, basta aver detto tutto quel che c’era da dire, pacatamente, senza effetti speciali. Senza frasi ad effetto, al limite una citazione, ma solo uno se la ricorda, perché niente rovina il tema come una scemenza nell’ultima riga, incollata lì come le frasi di un meme su Instagram. Del resto “la conclusione è il punto dove ti sei stufato di pensare” (Arthur Bloch).

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