Ecco l’Agnello di Dio che toglie i peccati di Palermo e della Sicilia.

Come ogni 23 maggio da 30 anni il rito auto assolutorio di una città (e di uno stato intero direi) che ricorda la morte di Falcone, di sua moglie, dei ragazzi della scorta. Ricorda, appunto, la morte. Quell’ultimo giorno. Perché ricordare gli altri, ricordare i giorni precedenti, sarebbe scomodo. Per taluni imbarazzante.

Sia chiaro, il 23 maggio 1992 ha rappresentato per molti una data spartiacque. Sicuramente per la mia generazione. Cresciuta in una città con i morti ammazzati oramai parte del paesaggio e con le autobombe che sventavano palazzi. E sia altrettanto chiaro, ricordare è pratica di lotta e consapevolezza. E chi, penso alle bislacche proposte di cambiare nome all’aeroporto di Palermo “Falcone e Borsellino” perché “brutto biglietto da visita”, vuole considerare superfluo il ricordo in realtà nasconde una voglia di normalizzazione che non possiamo permetterci.

Ma neppure possiamo permetterci di ridurre Falcone, Borsellino, Chinnici, Cassarà, La torre, Mattarella, Dalla Chiesa, Francese e le centinaia e centinaia di martiri nella battaglia antimafia a icone laiche a cui affidare il ricordo un giorno e sentirci purificati per il resto dell’anno.

Troppo facile. Troppo semplice. Ed anche abbastanza inutile.

“Seguire i soldi” era il metodo di indagine del pool antimafia. E tra chi posterà a benefici di follower e stampa un ricordo commosso, c’è da giurarci, troveremo chi sta già pensando come intercettare i fondi del Pnrr che arriveranno nelle città del sud, della Sicilia e in generale nel paese. Perché “con la mafia occorre conviverci” lo disse, non secoli fa, appena qualche anno fa un ministro e oggi è pensiero quasi comune.
Perché se la mafia non spara e si inabissa per fare affari, beh, condividere i salotti e gli studi notarili alla fine non è gran colpa.

In fin dei conti questa città ha capito, nel suo profondo, come la mafia riguardasse tutti e tutte solo quando svegliata dai botti di Capaci e Via D’Amelio. E ora mi pare pronta a riprendere sonno.

Per di più oggi, che puoi ritirare un premio legalità alla mattina e stare a cena con esponenti dei clan la sera. O gridare che “La mafia fa schifo” mentre hai una condanna per fatti di mafia sulle spalle. E tutto sembra quasi normale. La stessa normalità che si respira nei quartieri delle grandi città del sud e della Sicilia dove i tassi di evasione e abbandono bella scuola sono quelli di 30 anni fa. Nelle scuole intitolate a Falcone, Borsellino, Don Puglisi dove due ragazzi ogni dieci non finiscono gli studi.

Altro che “l’esercito di maestri elementari” invocato da Bufalino. Abbiamo insegnanti lasciati soli a combattere a mani nude. Dentro scuole che cadono a pezzi immagine perfetta del crollo di ogni interesse per qualsiasi futuro.

La politica, la stessa di appassionati discorsi su legalità e antimafia, non si vergogna di ricercare, chiedendo aiuto e consiglio, chi con la Mafia ha costruito consenso e potere. Con visite che ricordano gli inchini delle statue nelle processioni davanti alle case dei capo mafia. Quella stessa politica che oggi twitterà ed inonderà le redazioni di comunicati stampa e atti di dolore. Con lo stesso sguardo contrito di quando affollava le chiese per i tanti funerali di stato dopo l’ennesimo morto ammazzato e lasciato solo.

Il 23 maggio va quindi considerato superfluo? Certo che no. Anzi. Ma va, probabilmente, rovesciato il senso. Non ricordo della morte di eroi, che come sempre sono eroi inarrivabili e quindi sovrumani e ineguagliabili, ma come senso di vite spese nella lotta. Contro la mafia, certo. Ma anche contro un’anima nera e profonda. Quella che “i giudici sceriffi” che “ammazzano l’economia con le loro inchieste”. Quella delle lettere al principale giornale cittadino per lamentarsi di questi “giudici” che vivendo nelle città e nei condomini del centro di Palermo mettevano a rischio la pace e la tranquillità degli onesti cittadini.

Questa anima Palermo, come metafora del paese tutto, l’ha ancora. Anzi senza lenzuoli bianchi sporcati di sangue e senza il suono dei colpi di pistola mi pare quasi più forte.

Il 23 maggio voglio ricordare uomini e donne, non eroi, che non hanno avuto paura di scelte difficili e consapevoli. Le loro vite, non solo le loro morti. Un viaggio che è reso bene dal podcast che proprio il Fatto Quotidiano ha prodotto sulla mattanza. Trent’anni fa Palermo era immersa in una nube che puzzava di polvere da sparo. Oggi vive in una altrettanto maleodorante puzza di ipocrisia. Sperando di coprire con il profumo del sacrificio di Falcone la puzza dei propri peccati. Di ieri, oggi e domani.

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