Capaci: le tessere che mancano danno la misura della tenuta dei patti. Io non so se per la giustizia penale italiana si troveranno ancora prove sufficienti per considerare commesso un qualche reato che abbia a che fare con questi patti. Io non so se per la giustizia italiana questi patti potranno mai essere tradotti nel reato di minaccia a corpo politico, nel reato di depistaggio, nel reato di favoreggiamento aggravato, nel reato di concorso esterno, nel reato di tortura, nel reato di intestazione fittizia, di riciclaggio, di falso ideologico, di omessi atti d’ufficio, di truffa… O nella combinazione di taluni di questi. Non lo so. Ma so che i patti sono stati fatti e che questi patti sono un crimine.

Abbiamo imparato che non tutti i crimini diventano per convenzione dei reati e che non tutti i reati descrivono condotte da ritenersi criminali. È la politica, bellezza! E prima ancora è la cultura che anima una certa società in un certo tempo: anche per questo è così importante fare memoria di quello che è accaduto e difendere strenuamente il ruolo della scuola pubblica.

Il crimine commesso in maniera continuativa nel nostro Paese da una parte significativa di gruppi dirigenti è stato (ed è) quello di pensare che con la mafia si possa convivere. Perché la convivenza porta convenienza. Convenienza sul piano economico perché, in una economia fondata su una competizione feroce, mettersi dalla parte dei più feroci crea un vantaggio in termini di accesso alla liquidità, di accesso al credito, di risoluzione delle controversie interne ed esterne, di liquidazione della concorrenza. Convenienza sul piano politico perché, in una democrazia fondata sul consenso, mettersi dalla parte di chi quel consenso è capace di costruirlo in maniera illecita e al contempo è capace di far espellere contendenti alternativi crea un altro ragguardevole vantaggio. Convenienza sul piano della tenuta dell’ordine costituito, anche quando si tratti non tanto e non più di preservarlo da un presunto ordine avversario, ma semplicemente di garantire tranquillità di manovra e rendita di posizione a chi ne sia stato artefice o ne sia beneficiato: la violenza mafiosa che si è abbattuta in particolare sui giornalisti sta lì a documentarlo e oggi purtroppo questo continua a capitare anche al di fuori dei confini italiani (Daphne Caruana Galizia, Jan Kuciak, Peter de Vries gli ultimi in ordine di tempo).

Giovanni Falcone è stato ucciso perché radicalmente estraneo a questa logica, radicalmente estraneo a questa cultura, radicalmente ostile a questi patti criminali. Quando chiesero a Falcone cosa fosse la mafia, rispose: “La mafia e lo Stato sono due poteri che stanno sullo stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
Falcone scelse la guerra senza quartiere, per amore della libertà e per spirito di servizio verso la Repubblica, ribellandosi all’idea mefitica che lo Stato italiano dovesse ineluttabilmente continuare ad essere impastato di questo crimine, fiducioso nell’idea rivoluzionaria di una Italia liberata dalle mafie una volta per tutte.

Custodire la memoria di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco di Cillo, Vito Schifani non può che portarci a continuare la guerra, senza cercare pacificazioni di comodo che sono servite e servono ad assolvere una parte importante di classe dirigente e a mantenere il popolo italiano in una condizione di forzata puerilità – che però, scoperta, non fa altro che generare diffidenza e distanza verso la politica.

Ma ci sono tanti modi per continuare questa “guerra” e ci sono armi che non esigono un tributo di sangue. Come la verità. La verità piena, non quella addomesticata dalla convenzione pacificatoria. Quella che rimette a posto tutti i pezzi, anche quelli più scomodi. La verità è in sé una forma di giustizia, anche quando non sia il portato di un processo penale, finalizzata quindi alla punizione dei responsabili. Trovo per questo di grande valore le parole pronunciate da Mario Calabresi il 9 maggio alla Camera dei Deputati in occasione della celebrazione della Giornata in ricordo delle vittime del terrorismo e delle stragi: “È venuto il momento di consegnare quel tempo alla Storia e alla memoria privata ma, se tanto è stato fatto, alcune tessere del mosaico ancora mancano. Molti degli uomini e delle donne che hanno ucciso, che hanno aiutato ad organizzare, che hanno sostenuto, fiancheggiato e che sanno sono ancora tra noi. Da mezzo secolo però si sono rifugiati nel silenzio, in un silenzio che è omertà. Continuo a pensare che il coraggio della verità sarebbe per loro una occasione irripetibile e finale di riscatto. Il gesto che permetterebbe di chiudere definitivamente una stagione…”.

Sostituendo “trenta” a “cinquanta” i conti tornano lo stesso e spero davvero che i tempi siano ormai maturi.

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