Quattro anni fa, la Corte Costituzionale dichiarava l’illegittimità costituzionale di alcune norme di uno dei tanti decreti pro Ilva, del 2015, sulla base della motivazione per cui, nella tormentatissima vicenda legislativa del siderurgico di Taranto,“il legislatore aveva privilegiato in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva e aveva, invece, trascurato del tutto le esigenze relative a diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve reputarsi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (artt. 4 e 35 Cost.)”. Da questa constatazione, secondo il Giudice delle leggi, derivava che “il sacrificio di tali fondamentali valori importa che la normativa impugnata non rispetti i limiti che la Costituzione impone all’attività d’impresa, la quale, ai sensi dell’art. 41 Cost., si deve esplicare sempre in modo da non recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Tre anni fa, la Corte europea per i diritti dell’uomo condannava l’Italia “per la violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che assicura il diritto al rispetto della vita privata, e dell’art. 13 sul diritto a un ricorso effettivo, per l’inquinamento provocato dall’Ilva e, in particolare, per non avere adottato misure in grado di tutelare il diritto dei ricorrenti a vivere in un ambiente salubre”.

Qualche mese fa, il Consiglio per i diritti umani dell’Onu ha adottato la risoluzione 48/13 nella quale, per la prima volta, si riconosce a livello globale il diritto umano a vivere in un ambiente pulito, sano e sostenibile.

Secondo l’ultima relazione dell’Agenzia europea dell’ambiente, del 2021, ogni anno l’inquinamento atmosferico provoca oltre 400.000 decessi prematuri, tra malattie di natura oncologica e cardiovascolare.

Poco più di un mese fa, sempre l’Onu – in un rapporto sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito e sostenibile – ha accertato che la produzione nell’impianto siderurgico Ilva di Taranto ha compromesso la salute dei cittadini e violato i diritti umani per decenni, causando un grave inquinamento atmosferico. I cittadini che vivono nelle vicinanze dell’impianto “soffrono di malattie respiratorie, cardiache, cancro, disturbi neurologici e mortalità prematura(qui il documento).

Il rapporto annuale è intitolato “The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment” ed è stato redatto dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito e sostenibile, David R. Boyd, di concerto con il Relatore speciale Marcos Orellana sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e lo smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi. E’ stato pubblicato e approvato dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu il 12 gennaio 2022.

Nel rapporto, in via generale, si chiedono agli Stati concreti provvedimenti, anzitutto legislativi, che azzerino l’inquinamento per impedire la compromissione ambientale, nonché le diseguaglianze sociali che, a loro volta, fanno sì, in varie zone del mondo, che diritti, come quello alla salute, siano pregiudicati proprio a causa del degrado ambientale e della presenza di siti contaminati in comunità marginali. In tal senso, gli Stati hanno obblighi specifici, anche in chiave di vigilanza e controllo sulle attività delle imprese private.

Tra i luoghi più degradati del pianeta, i relatori hanno individuato proprio la zona dell’Ilva di Taranto che versa in una situazione analoga a quella di Quintero-Puchuncavi in Cile, Bor in Serbia e Pata Rat in Romania. Per il rapporto, il diritto a un ambiente salubre è ancorato a una seria limitazione dell’utilizzo e dell’emissione di sostanze tossiche che colpiscono le persone più vulnerabili. Privilegio del quale, evidentemente, non possono godere i cittadini di Taranto dove le operazioni di pulizia e bonifica dovevano iniziare nel 2021 ma sono state rinviate al 2023.

Qualche giorno fa è stata approvata la riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione: la Repubblica tutela ufficialmente l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni; e la legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali. Inoltre, l’iniziativa economia privata, ancorché libera, trova espressamente i limiti della tutela della salute e dell’ambiente, oltre a quelli già esistenti dell’utilità sociale, della sicurezza, della libertà e della dignità umana. Infine, si sancisce che la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali e ambientali.

Ecco, quella riforma della Carta – in sé importantissima – è stata commentata in vari modi.

Qualcuno, per dire, ha messo in dubbio la sua credibilità dato che proviene dallo stesso Parlamento che, fino a oggi, non si è proprio coperto, in vari ambiti, di gloria per sensibilità ambientale e verso la salute pubblica. Qualcun altro ha parlato apertamente di greenwashing costituzionale.

Non condivido questo tipo di giudizi liquidatori: quella riforma, per mille ragioni, resta un evento di grande rilevanza per il quadro di tutela legale dell’ambiente e della salute.

Cionondimeno, a volte mi capita di ricordarmi di una litania di provvedimenti giudiziari delle massime magistrature nazionali ed europee e di rapporti delle principali istituzioni mondiali, in materia ambientale ma non solo, come quella che ho riportato sopra (e ho saltato molti altri fatti ed atti altrettanto emblematici per non appesantire la ricostruzione). E, subito dopo, di metterla a confronto con parole, opere e soprattutto omissioni di legislatori e governanti italiani degli ultimi dieci anni almeno; in particolare, dei legislatori e governanti odierni.

E, in quelle occasioni, faccio fatica a scacciare il tarlo per cui quella della scorsa settimana, più che una riforma della Carta, si rivelerà l’ennesima riforma sulla carta. Per non dire che, in quei momenti, non ricorro anch’io alla parola greenwashing solo perché non amo gli inglesismi.

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