di Maurizio Becchia

Il fallimento della Cop26, anche se la maggior parte delle notizie qui in Italia afferma il contrario, era facilmente prevedibile. Annunciare pomposamente di limitare l’innalzamento di 1,5 gradi di temperatura, cioè confermare gli impegni del 2015 per altro difficili da mantenere, è un maldestro tentativo di nascondere un fiasco. Basterebbe leggere l’articolo di Focus e il grafico per capire che ogni misura presa in Europa avrà scarsissimo effetto perché i problemi sono altrove: l’India ha affermato che la neutralità climatica arriverà nel 2070 (e già questa sembra una battuta di Hendel/Pravettoni) mentre Xi Jinping ha preferito partecipare in videoconferenza (e forse è stato l’unico ad aver efficacemente interpretato lo scopo di limitare le emissioni di CO2) affermando comunque che prima del 2030 non se ne parla di ridurre le emissioni. Cioè i due paesi che contribuiscono maggiormente alle emissioni di CO2 si difendono affermando, giustamente, che coloro che oggi vogliono mettere dei vincoli sono quelli che nel recente passato hanno inquinato maggiormente (Usa ad esempio).

Come si può fare per obbligare Cina, India e altri paesi asiatici a limitare le loro emissioni? Visto che l’opzione militare (come in Afghanistan) è da scartare (visto anche gli armamenti nucleari in possesso dei due paesi) bisognerebbe limitare la loro produzione. Ma come si è arrivati a trasformare la Cina e i paesi dell’Asia in fabbriche a cielo aperto? Se interpellate un qualsiasi addetto alla logistica vi confermerà che il 90% (e sono percentuali arrotondate per difetto) delle merci movimentate ha la dicitura “Made in China” o “Made in PRC”: prodotti tessili, giocattoli, software, arredamento, illuminazione… tutto o quasi proviene da quei paesi lì. Uno studio dell’ICE prevedeva che tutto ciò sarebbe successo, quindi inutile, ora, cascare dal pero.

Se vogliamo limitare le emissioni bisogna riportare le produzioni a casa nostra con diversi vantaggi:

1) distanze per l’approvvigionamento;

2) riduzione della disoccupazione e dei contratti precari;

3) conseguente riduzione delle ore di Cig e/o Reddito di Cittadinanza.

Sicuramente pagheremo un po’ di più il prodotto, ma che senso ha essere in Cig o con contratti in somministrazione e cercare giocoforza prodotti a basso valore per la produzione e il trasporto dei quali si continua ad inquinare? Un piccolo esempio: un prodotto per il giardinaggio acquistato on-line fabbricato a Shenzen (Cina) e importato in Europa da una Gmbh (srl) tedesca; traccio il mio pacco: ricevuto all’hub di Barcellona, caricato su camion e spedito ad Orio a Serio (arrivato il giorno seguente), nuovamente caricato e spedito (la sera) ad un hub nei pressi di Torino, consegnato il giorno seguente. Immaginiamoci il quantitativo di CO2 emesso per la produzione in Cina, spedizione alla società tedesca, spedizione in Spagna, trasporto ad Orio al Serio, spedizione a Torino e finalmente spedizione a destino con furgone (a circa 80 km dall’ultimo hub). Il tutto per prodotti che eravamo in grado di fare noi e per i quali abbiamo fornito know-how e tecnici (con viaggi aerei e quindi emissione di CO2) ad una fabbrica distante 10mila chilometri!

Ma non sarebbe meglio riprenderci le produzioni di ciò che sappiamo fare qui a casa nostra?

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