Già prima che iniziasse la Cop26, il ministro britannico che la presiede, Alok Sharma, aveva detto che in Scozia sarebbe stato più difficile che alla Cop21 di Parigi quando, nel 2015, fu firmato lo storico patto per il clima. Perché allora si trattò di un accordo-quadro, “ma la maggior parte delle regole furono lasciate ai negoziati successivi”. Ora è tempo di arrivare al dunque: o si è dentro o si è fuori, o si corre insieme o si fa la propria partita. E a fare la propria partita sono in tanti. Dietro i rapporti tesi e gli impegni che molte potenze strategiche si rifiutano di firmare c’è anche questo: guerre fredde su più fronti, come quella per le materie prime essenziali alla transizione ecologica. Quello che si rischia, però, è una netta divisione tra un mondo (solo Cina, Russia e India contano quasi 3 milioni di abitanti, ndr) e l’altro. “Una divisione che è già in atto” spiega Marco Di Liddo, senior analyst del Centro Studi Internazionali (Ce.SI) a cui ilfattoquotidiano.it ha chiesto di raccontare quali siano le difficoltà di oggi, rispetto al 2015. A iniziare dal contesto geopolitico molto diverso. “Non vorrei davvero essere nei panni di Alok Sharma. In questo momento, il suo è uno dei lavori più logoranti dopo l’operatore che deve dare da mangiare ai coccodrilli negli zoo indiani” ha commentato l’analista.

Anche il contesto geopolitico del 2015 non era semplice, tra il conflitto in Ucraina, la guerra in Siria, il nucleare iraniano e gli attentati terroristici a Parigi. Ma il clima ha messo tutti d’accordo.
“Nel 2015 la comunità internazionale viveva un periodo positivo rispetto al tema del cambiamento climatico. Alla Casa Bianca c’era Barack Obama, primo presidente Usa a far capire che si trattava di un tema cruciale per il futuro, in termini di sopravvivenza del pianeta e di ripensamento del modello economico globale. Però, nel 2015 il mondo aveva altre priorità. Lo Stato islamico viveva la sua stagione più florida, soprattutto in Siria ed Iraq e l’Europa doveva affrontare il momento più duro dell’emergenza migratoria”.

Cosa è cambiato in questi sei anni?
“Innanzitutto alla Casa Bianca è arrivato Donald Trump, con una visione totalmente opposta a Obama. La minaccia terroristica è andata declinando, soprattutto per quanto riguarda la sua dimensione territoriale in Siria ed Iraq, anche se ancora esistono focolai importanti, nel Sahel, in Mozambico, in Afghanistan. E per la questione migratoria i numeri dell’emergenza non sono stati più così alti come negli anni precedenti, soprattutto per quanto riguarda le rotte mediterranee. Ma abbiamo dovuto affrontare cicli alternati di flessione economica a livello globale e, poi, la pandemia”.

Che peso ha avuto questo sulla transizione ecologica che alcuni più di altri stavano intraprendendo?
“Oltre ad avere dimostrato la fragilità del sistema economico, sociale e politico costruito dall’uomo di fronte a eventi incontrollabili, la pandemia ha avuto un impatto economico molto forte, dal punto di vista occupazionale (soprattutto durante i lockdown) e per gli effetti sul prezzo di materie prime ed energia. Basti ricordare il petrolio a prezzo negativo per la prima volta nella storia per lo squilibrio tra domanda e offerta, mentre oggi c’è il problema del gas, dato che la ripartenza economica è stata più veloce e più impetuosa del previsto e i fornitori di gas non ce la fanno a far fronte alla domanda globale. Ma un altro impatto è stato quello sulla partita globale delle terre rare e dei semiconduttori, minerali di importanza strategica per l’industria ad alta tecnologia e per le componentistiche per l’elettronica. La crisi nella produzione e nella vendita dei semiconduttori ha avuto impatti soprattutto nell’industria automobilistica, ma anche nella componentistica, per tutti i prodotti ad alta tecnologia, dal condizionatore al laptop e a quelli che permettono di avere una casa più smart. Si arriva a un paradosso: cerchiamo di andare verso un modello di sviluppo che ha bisogno di quelle materie prime per essere applicato. Ma prendere quelle terre rare, processarle e renderle impiegabili industrialmente è un processo altamente inquinante. Eppure non possiamo pensare alle auto elettriche senza avere il litio (per il quale c’è una battaglia tra Usa e Cina, ndr), oppure i semiconduttori che poi ci permettono di accumulare energia o i materiali che ci servono per i pannelli solari”.

La Cina è il principale produttore mondiale di pannelli fotovoltaici, turbine eoliche e batterie elettriche e gestisce circa il 93% del fabbisogno internazionale di ‘terre rare’. Questo come influenza i rapporti con le altri grandi potenze e, dunque, i negoziati della Cop26?
“Rispetto al 2015, diversi Paesi non hanno smesso di crescere e sono entrati in una nuova fase. La Cina non vuole essere più l’industria manufatturiera del pianeta per prodotti a bassa tecnologia, ma vuole diventare la fabbrica del mondo per innovazione tecnologica. Per fare questo passo ha bisogno di energia, mentre le politiche di abbattimento delle emissioni porterebbero a riduzione della produzione e della quantità di energia di cui questa ‘macchina’ necessita. Per questo i cinesi hanno spostato il target emissioni nette zero al 2060. Stessa cosa ha fatto la Russia e l’India ha rinviato addirittura al 2070. Queste potenze non vogliono che la transizione rallenti i loro piani di crescita economica. E, come scusa, accusano i Paesi di prima industrializzazione di voler fare pagare a tutti la quota di un problema che hanno generato per primi in maniera maggiore”.

Da qui le grandi assenze in alcuni accordi, per esempio per fermare i finanziamenti all’estero di progetti legati ai combustibili, non firmato da Cina, India, Russia, ma anche da Francia e Germania, che pure hanno diversi interessi nel gas. Chi si nasconde dietro gli altri?
“Tutti i maggiori produttori di energia si nascondono dietro chi si mette in campo in maniera esplicita. Dai Paesi del Golfo, la cui stessa ricchezza nasce da un modello di sviluppo basato sugli idrocarburi, al Brasile del presidente Bolsonaro, che non ha esitato un attimo a sacrificare la foresta Amazzonica. Anche molti Paesi africani, che sono tra i più colpiti dagli effetti del cambiamento climatico, non si scostano da un modello di sfruttamento intensivo delle risorse: il Congo e il bacino delle terre rare, appunto, nelle sue regioni orientali, la Nigeria e il delta del Niger, il Mozambico, l’Etiopia che sta investendo nella costruzione della diga Grand Ethiopian Renaissance e nei parchi industriali dove arriveranno centri manufatturieri asiatici, nei dintorni di Addis Abeba. Poi ci sono altri Paesi che chiedono di cambiare i termini della lotta al cambiamento climatico, perché al momento non hanno modelli di sviluppo alternativi meno impattanti. Per questo il fardello devono portarlo le economie più mature, Canada, Stati Uniti, Unione Europea”.

Che ruolo ha l’Unione europea finora dominata dall’asse franco-tedesco? Ci saranno nuovi equilibri nel post Merkel?
“La Germania ha una visione strategica e l’asse franco-tedesco prescinde da chi fa il cancelliere. L’Italia può inserirsi, conscia del fatto che economicamente non è la Germania e che Draghi sa come muoversi a livello internazionale. Ma senza dimenticare che la Francia vede ai nostri assetti strategici con appetito e in più di una occasione ha cercato di prendere il controllo di nostre realtà. A volte riuscendoci. Tornando alla Germania, basta pensare alla questione del Nord Stream. In tutti i modi gli Stati Uniti e le organizzazioni ambientaliste hanno provato a convincere Berlino a rinunciare al gasdotto Nord Stream, ma la Germania è stata inamovibile, perché lo riteneva un assetto strategico troppo importante per la sicurezza energetica del Paese. Era fuori dai negoziati e né si poteva utilizzare la minaccia della chiusura del gasdotto come arma contro la Russia. Questo però, parallelamente a un discorso di decarbonizzazione e denuclearizzazione portato avanti dalla Germania, che ha il partito dei Verdi più forte d’Europa. I Grunen hanno perso la battaglia sul gasdotto, ma vinceranno quelle su emissioni di carbonio e nucleare. Per Berlino è un’opportunità per sfruttare nuove risorse e investire in ricerca e sviluppo.

La sensazione è che quelle poche realtà che vanno avanti non siano in grado di dettare la linea.
“Perché la Russia ha un’economia obsoleta (con alternative quasi nulle) che si basa quasi esclusivamente sull’esportazione di idrocarburi che estrai e commercializzi in un modo solo. Un’economia in piedi grazie alla domanda di energia sempre più alta che arriva da Sud-est asiatico, India e soprattutto Cina, con cui Mosca ha firmato il contratto del secolo per la fornitura di gas. La Cina ha il primato della produzione e della commercializzazione delle terre rare e, anche quelle, sono altamente impattanti. Ma gli stessi Stati Uniti, che sono ambigui anche sotto la presidenza di Biden, con shale gas e shale oil hanno raggiunto la quasi autonomia interna a livello di fabbisogno, diventando anche esportatori, ma il costo ambientale non è trascurabile, perché quell’industria è tra le più inquinanti al mondo. E poi c’è l’India: la costante crescita demografica del Paese non consente di accelerare sull’economia verde, perché c’è bisogno di fabbriche per far lavorare le persone e perché lì oggi si delocalizza molto. L’unico modo per puntare i piedi sono pressioni politiche o sanzioni economiche, ma non credo sia la strada giusta. Le sanzioni alla Russia dopo la Crimea o a quelle alla Cina da parte degli Usa ci fanno capire che in un mondo globalizzato avrebbero un effetto boomerang perché i canali dell’economia globale trovano sempre un modo per evadere e contrattaccare. Pensiamo alla guerra dei dazi”.

Alla Cop26 è stata annunciata una partnership con il Sudafrica, che vede in campo Ue, Francia, Germania, Gran Bretagna e Usa: 8,5 miliardi di dollari come prima tranche di risorse per accelerare la decarbonizzazione, in particolare per quanto riguarda il sistema elettrico.
“Il Sudafrica produce energia attraverso il carbone di cui è maggiore produttore del Continente e, se ne ha ancora bisogno, lo prende dal vicino Mozambico. Nelle miniere lavorano centinaia di lavoratori, e altrettanti sono nelle centrali. Ma, contestualmente, moltissime persone muoiono per malattie ai polmoni a causa delle polveri di carbone. Ne nasce uno scontro sociale tra quelli che vogliono chiudere le miniere e quelli che si chiedono dove andrebbero a lavorare. L’annuncio degli 8,5 miliardi ha già scatenato proteste in Sudafrica, con le popolazioni scese in piazza. La lotta al cambiamento climatico deve essere guidata non solo dalla scienza, ma anche da un piano economico e lavorativo, per reintegrare nel tessuto produttivo i lavoratori che perderanno il posto. Questo ci insegna il caso del Sudafrica”.

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