“Noi siamo avanti”, ma ‘amici’ come prima. Si potrebbe tradurre così l’adesione annunciata dall’Italia all’alleanza Boga (Beyond Oil and Gas Alliance), nata da un’iniziativa di Danimarca e Costa Rica per puntare alla graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas. Infatti, ancora prima che iniziasse la conferenza stampa, a Glasgow, dei due Paesi promotori, il ministro della Transizione Roberto Cingolani ha annunciato l’adesione (insieme ad appena altri 11 paesi, inclusi Danimarca e Costa Rica), commentando: “L’Italia su questo programma è perfino più avanti e abbiamo le idee chiare”. E ricordando quello che ha definito “il grande piano per le rinnovabili con 70 miliardi di watt per i prossimi 9 anni per arrivare al 2030 con il 70% di energia elettrica pulita”. Ma dei tre livelli di adesione al Bota possibili, ‘core member’, ‘associate’ e ‘friends’’ l’Italia ha scelto solo quest’ultimo.

Va detto che l’Italia, almeno, c’è. Perché l’esiguo numero di paesi che hanno aderito rende l’idea di chi davvero è pronto a dire stop all’era delle fonti fossili. Manca persino il padrone di casa, il Regno Unito, oltre naturalmente a Stati Uniti, Cina, Russia, Germania e la fila di paesi in piena crescita (come l’India), o che basano le loro economie sul petrolio (come l’Arabia Saudita).

Il Boga– Obiettivo della Beyond Oil and Gas Alliance è quello di mettere insieme governi che lavorino congiuntamente per facilitare la graduale eliminazione della produzione di petrolio e gas, attraverso il dibattito, ma anche con azioni e impegni concreti. I membri principali, si impegnano “a porre fine a nuove concessioni, licenze o round di leasing per la produzione e l’esplorazione di petrolio e gas e a fissare una data allineata con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi per porre fine alla produzione e all’esplorazione di petrolio e gas sul territorio su cui hanno giurisdizione”. I membri associati devono intraprendere “passi concreti significativi che contribuiscono alla riduzione della produzione di petrolio e gas”. Per esempio “adottare una riforma delle sovvenzioni o decretare la fine del sostegno finanziario pubblico internazionale per l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas all’estero”.

Infine, sia i governi che gli altri partner possono diventare ‘Friends of Boga’, sottoscrivendo la dichiarazione, che sostiene “una transizione globale socialmente giusta ed equa” per allineare la produzione di petrolio e gas con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e impegna i Paesi firmatari “a lavorare insieme per facilitare misure efficaci a tal fine in linea con l’accordo di Parigi e gli obiettivi nazionali di neutralità climatica”.

Le (poche) adesioni – E questo è quello che farà l’Italia. D’altronde, lo stesso Cingolani ha spiegato: “È una cosa alla quale stiamo già lavorando, ma il punto è che siamo una nazione energivora, siamo una delle più grandi manifatture del mondo, quindi per Paesi più piccoli e poco manifatturieri è più semplice”. Da qui l’impegno meno ambizioso. Proprio per questo, però, è ancora più deludente il fatto che pochissimi siano i Paesi che hanno aderito, anche con questa formula. Hanno dato adesione come ‘core members’ Francia, Groenlandia, Irlanda, lo stato canadese del Quebec, Svezia e Galles. Nel 2017, la Francia aveva annunciato lo stop all’estrazione di gas e petrolio dal 2040, mentre la scorsa estate la Groenlandia, considerata uno dei luoghi più promettenti per le risorse del sottosuolo, ha sospeso qualsiasi attività di esplorazione alla ricerca di idrocarburi.

California, Nuova Zelanda e Portogallo aderiscono come membri ‘associati’ e l’Italia, appunto, come membro ‘amico’. La Scozia, davanti alle cui coste si estrae il petrolio Brent, ha dato qualche segnale e potrebbe unirsi a breve. Sono aperte ‘trattative’ con altri governi, che potrebbero aderire nei prossimi giorni. “Il nostro obiettivo non è piccolo, la nostra ambizione non è modesta. Speriamo che oggi segnerà l’inizio della fine del petrolio e del gas” ha affermato Dan Jørgensen, ministro danese per il clima. Si fa sentire l’assenza del Regno Unito. “Il primo ministro britannico Boris Johnson perderà ciò che resta della sua credibilità climatica se non riesce a escludere nuovi petrolio e gas e spinge avanti con proposte per un nuovo giacimento petrolifero a Cambo” afferma Rebecca Newsom, capo della politica di Greenpeace UK, parlando del nuovo giacimento, situato a 125 chilometri dalle isole Shetlands, che potrebbe ricevere presto l’approvazione del governo britannico.

Le riserve di petrolio e gas – Eppure, secondo l’Agenzia internazionale dell’Energia (Iea), per limitare a 1,5°C il riscaldamento globale (obiettivo che, ad oggi, non è condiviso a livello planetario), è necessario non solo fermare l’estrazione del carbone, ma anche non inaugurare più, fin da subito, nuovi pozzi di petrolio o giacimenti di gas. Uno studio appena pubblicato sulla rivista scientifica Nature, suggerisce che per avere una probabilità del 50% di non superare la soglia degli 1,5°C dovremmo lasciare nel sottosuolo l’89% delle riserve di carbone, il 58% di quelle di petrolio e il 59% delle riserve di gas naturale. Se vogliamo aspirare a probabilità più alte, dovremmo lasciarle quasi tutte le riserve intatte.

Impossibile, se si fa i conti con la realtà. La stessa Boga, sul suo sito istituzionale, spiega che gli attuali piani dei governi “prevedono un aumento della produzione di petrolio e gas che comporterebbe una produzione di gas entro il 2030 superiore del 57% rispetto alla soglia che sarebbe coerente con il limite degli 1,5°C”. Basta dare uno sguardo alla ‘Global Oil & Gas Exit List’ pubblicata di recente da un gruppo di organizzazioni, tra cui ReCommon e Greenpeace e che raccoglie dati sulle attività di 887 aziende petrolifere e del gas. L’80% circa dei produttori oil & gas analizzati nel database si appresta a sviluppare nuove riserve di idrocarburi nei prossimi anni. In prima linea ci sono Qatar Energy, Gazprom, Saudi Aramco, ExxonMobil e Petrobras, ma non sono certo le uniche.

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