Dopo essere finita al centro delle polemiche, ora è chiamata a dire la sua. Solo che ad ascoltarla sarà proprio l’istituzione che lei stessa dirige. È l’ultima svolta nello scandalo che ha investito Kristalina Georgieva, numero uno del Fondo Monetario Internazionale accusata due settimane fa di aver esercitato pressioni per gonfiare i numeri della Cina nel rapporto Doing Business 2018 sul clima imprenditoriale nei diversi Paesi del mondo durante il suo mandato come capo della Banca Mondiale. Il consiglio esecutivo del Fmi ha infatti annunciato che terrà una riunione in cui darà all’economista bulgara, sua direttrice operativa, la possibilità di spiegare la propria posizione e difendersi dagli attacchi.

“L’esecutivo si incontrerà presto con l’ad per affrontare la questione”, ha confermato martedì 5 ottobre il Fondo sottolineando il suo impegno per una revisione completa, obiettiva e tempestiva. Il giorno prima l’organo di gestione dell’organizzazione aveva svelato di aver tenuto una riunione con i rappresentanti dello studio legale WilmerHale, che è responsabile dell’audit commissionato dalla Banca Mondiale, mentre la settimana precedente si era incontrato con il comitato etico per quello che è stato definito come uno “scambio di pareri preliminare“. Proprio quest’ultimo ha infatti avviato un’inchiesta sulla sua numero uno, indicata per quel ruolo dai ministri dell’Economia europei, mentre il Tesoro degli Stati Uniti (primi azionisti della World bank) sta svolgendo un’analisi sui “gravi esiti” dell’indagine a carico della donna.

Tutto è iniziato a metà settembre, quando la Banca Mondiale ha deciso di terminare la pubblicazione del report Doing Business che fino allo scorso anno classificava 190 Paesi in base alla loro presunta competitività e appetibilità per gli investitori indirizzando le decisioni di banche e aziende. Una scelta cui l’istituzione ha detto di essere approdata dopo aver commissionato un’indagine interna dalla quale sono emerse pressioni sullo staff per migliorare il posizionamento di Pechino di sette gradini rispetto a quello che le era stato assegnato. Oltre all’allora presidente Jim Jong Kim, a forzare la mano dei funzionari è stata secondo l’accusa proprio Georgieva, che nel ruolo di managing director lavorava a un maxi aumento di capitale da 13 miliardi di dollari per la Banca nell’ambito del quale la quota azionaria del Dragone sarebbe passata dal 4,6 al 6%.

“Sono profondamente in disaccordo“, aveva detto l’economista bulgara in risposta al resoconto pubblicato da WilmerHale dove si parlava di “cultura tossica” e “paura di rappresaglie” dentro al team di Doing Business per chiunque avesse “sfidato un ordine del presidente o del ceo”. Parole cui, pochi giorni dopo, avevano fatto eco quelle di Joseph Stiglitz: in un intervento sul sito dell’organizzazione internazionale Project Syndacate il premio Nobel per l’Economia aveva bollato la questione come un tentativo di “colpo di Stato” all’interno del Fondo, una macchinazione tesa a scalzare la Georgieva dalla sua posizione o comunque indebolirla in maniera significativa. E questo nonostante, secondo lui, la donna si sia ben comportata nel contrastare la crisi economica globale innescata dalla pandemia e abbia favorito un’azione più energica del Fondo nel contrasto ai cambiamenti climatici.

I due interventi non sono però riusciti a calmare la acque intorno alla dirigente. Tanto che nuovi attacchi sono arrivati il 4 ottobre, quando quando un gruppo di 331 ex dipendenti della Banca Mondiale ha scritto al board dell’istituto con l’obiettivo di mettere in guardia sui “rischi senza precedenti alla sua reputazione“. Nel documento, pubblicato dal Financial Times, gli impiegati accusano Georgieva di corruzione istituzionale e abuso di autorità.

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