Il ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani cita il nucleare ed è subito scontro. Del resto non potrebbe essere diversamente in un paese come l’Italia dove ben due referendum hanno bocciato sonoramente l’atomo. E il ministro stesso dopo pochi giorni fa una decisa retromarcia dicendo: “Oggi noi non potremmo fare nulla di nucleare, perché abbiamo un referendum che dice no alle vecchie tecnologie e quelle nuove al momento non ci sono ancora”. Quindi un fuoco di paglia dietro al quale, però, c’è una logica che di “transizione ecologica” ha ben poco.

La “sparata” del ministro sul nucleare infatti, se da un lato ha riacceso le speranze dei pochi filonuclearisti italici che in ordine sparso ogni tanto sperano di “riaccendere” l’atomo con la fissione, sotto un altro punto di vista ha fatto danni ben più gravi. Ossia ha rimesso al centro del dibattito un modello del secolo scorso: quello centralizzato. Catalizzati dall’atomo, infatti, ecco che si sono scatenati i sostenitori del modello centralizzato nel quale ci sono dei grandi, e pochi, produttori d’energia elettrica con poche e grandi centrali, mentre a valle ci sono solo dei consumatori il cui destino è per l’appunto quello di consumare senza poter influire sulle modalità di produzione, sulle fonti e soprattutto sui prezzi.

Il modello, volendo fare il confronto con l’informatica, è quello dei sistemi degli anni Settanta nei quali c’era un unico server centrale “intelligente” che forniva le informazioni a una miriade di terminali “stupidi”, incapaci d’elaborare e produrre informazioni. Insomma la logica è quella di un generatore elettrico collegato a un motore o a una lampadina, tramite un interruttore, con in mezzo, naturalmente, un contatore.

Il mettere in rete molti piccoli impianti a fonti rinnovabili che compensano la loro intermittenza tra di loro o attraverso rinnovabili continue come l’idroelettrico o il biogas, utilizzando la logica dell’Internet prestata all’energia – cosa che funziona da almeno quindici anni proprio in Italia grazie al lavoro certosino di Terna che gestisce oltre 800 mila impianti a fonti rinnovabili – sembra proprio che non vada a genio a molti teorici dell’energia lungo lo Stivale. E c’è da capirli. Già, perché attraverso le rinnovabili diffuse e di piccole dimensioni le persone e le industrie possono prodursi da soli l’energia e magari venderla ai vicini, cosa che farebbe diminuire i prezzi e il fatturato dei produttori/distributori, perché le rinnovabili hanno il difetto che la materia prima ha un costo marginale che tende a zero, ma soprattutto liberano le persone da una dipendenza energetica che assomiglia un vero e proprio “guinzaglio energetico”.

Insomma oltre a ledere in maniera pesante i fatturati delle compagnie energetiche, le rinnovabili distribuite mettono in dubbio il potere che passa attraverso la distribuzione dell’energia così come lo conosciamo oggi. E si tratta di una resistenza anche generazionale. Dio non voglia, infatti, che tra una decina d’anni i ragazzi che oggi scendono in piazza per il clima mettano su famiglia sotto un tetto con i pannelli fotovoltaici, o ancora peggio s’uniscano tra di loro per comprare una pala eolica e consumare energia in maniera indipendente ricaricando, magari, la propria auto elettrica dopo pochi anni a costo zero, per il portafogli e per il clima.

Decisamente troppo per chi vorrebbe vendere a caro prezzo energia prodotta dal gas fossile, come succede in questi giorni, e poi magari aggiungere l’ennesimo balzello energetico in bolletta per levare la CO2 dall’atmosfera a caro prezzo attraverso l’improbabile e poco sicuro CCS, la cattura e sequestro sotterranei, non si sa per quanto, della CO2.

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