Cosa c’entrano le social streets e la sostenibilità ambientale? Me lo sono chiesto quando ho ricevuto l’ultimo libro del Prof. Stefano Bartolini, autore del libro Ecologia della felicità (ed. Aboca). Il prof. Bartolini cita le social streets all’interno di un’idea di futuro sostenibile dove le relazioni sono al centro. Ma facciamo un passo indietro.

Oggi si parla molto di sostenibilità ambientale. È evidente che viviamo un’emergenza climatica e non solo perché ce lo dice Greta Thunberg, basta guardarci attorno. Ormai qualsiasi cosa immessa sul mercato ha il marchio “sostenibile”. Bartolini fa un’analisi molto dettagliata su cosa significhi essere veramente sostenibili. “Condividere rende felici e non inquina; possedere non rende felici ed inquina. Invece di migliorare la condivisione la nostra società punta all’espansione infinita. Il risultato è che il nostro mondo non è felice e sostenibile”. Secondo il professore la nostra società desertifica le relazioni perché stimola ossessivamente il possesso e la competizione. Questo accade già dalla scuola dove c’insegnano a pensare a noi stessi, studiare per diventare i migliori e non pensare agli altri.

Per mettere un freno a questo circolo vizioso Bartolini illustra tanti tasselli di un puzzle che, se composto, potrebbe aiutare ad ottenere la tanto agognata sostenibilità. Partendo proprio dall’istruzione ad esempio, valorizzando quei metodi didattici dove si insegna la collaborazione fin da piccoli, come il metodo Montessori. Maria Montessori fu la prima a sperimentare le classi miste dove i bambini più grandi aiutavano i più piccoli nell’apprendimento; eppure le scuole montessoriane pubbliche sono ancora una rarità in Italia. Ma il cambiamento dovrebbe passare anche dall’organizzazione delle città.

A Bologna è nato da poco il primo “museo dello spazio pubblico” fondato da Luisa Bravo. È un progetto ambizioso che mira a creare la cultura dello spazio pubblico come elemento fondamentale per vivere città dove le relazioni siano al centro. La sostenibilità non si può ottenere mantenendo il nostro stile di vita e sperando che le tecnologie e il progresso vengano in nostro soccorso. Quando un giorno tutti avremo l’auto elettrica probabilmente l’aria delle nostre città sarà pulita, ma avremo spostato un problema da una parte ad un’altra. Inizieremo a sfruttare altri tipi di risorse minerarie in Africa per creare batterie, nasceranno nuove guerre geopolitiche per accaparrarsi le risorse, nuovi profughi. E tutto questo per cosa? Per un’auto elettrica.

Probabilmente la risposta corretta al problema della mobilità sarebbe avere città dove l’auto non è necessaria. Si parla molto delle “città dei quindici minuti” e la pandemia ci ha avvicinato a questa realtà. La parola “prossimità” è tornata a rivestire un ruolo importante. Se per andare dal punto A al punto B, invece di prendere l’auto, posso disporre di aree pedonali, avrò modo di creare anche spazi ed occasione di incontro, di socialità come i “parklet” molto comuni in Nord Europa.

Vivere meglio i luoghi che abitiamo è anche questo un modo per essere sostenibili. Se l’aria che respiriamo è buona, se il mare vicino casa non è inquinato, forse non è necessario prendere l’aereo e spostarsi migliaia di chilometri per godersi la natura. È quella che il professor Bartolini definisce “crescita difensiva” ovvero quei consumi che fanno crescere il Pil per compensare il degrado delle relazioni. I bambini non possono più giocare in strada, devono essere accompagnati, seguiti, non sono autonomi e così è più facile acquistare Playstation per intrattenerli (aumento di Pil), impegnarli con mille attività per combattere il problema dell’obesità infantile. Così come l’industria dell’intrattenimento, Netflix, Amazon, serie tv che ci tengono attaccati ad uno schermo, anche questa è crescita difensiva.

La combinazione di duro lavoro e spese elevate è un’ottima ricetta per la crescita economica dove però le relazioni si degradano. Ormai è scientificamente provato che avere una buona vita sociale aiuta anche a vivere meglio e più a lungo. Tempo fa, un’infermiera registrò le conversazioni con i pazienti dell’hospice dove lavorava con malati terminali. I principali rimorsi sul letto di morte riguardavano l’aver avuto poco tempo da dedicare alla famiglia, agli affetti, ai comportamenti adottati. Scorrendo la lista non ho trovato rimorsi del tipo “avrei voluto avere una Ferrari, una piscina” o qualsiasi cosa il denaro potesse comprare. I soldi non fanno la felicità, si diceva una volta. Ebbene, gli studi del professor Bartolini dimostrano in modo evidente che oltre un certo livello, incrementare la ricchezza personale non comporta un aumento di felicità, anzi, può accadere il contrario.

Allora torniamo da dove siamo partiti. Un mondo sostenibile può essere anche più felice. Bisognerebbe ogni tanto soffermarsi a pensare cosa ci rende veramente felici. Proprio in questi giorni ricorrono otto anni dalla nascita della prima Social street che si prefiggeva l’obiettivo di riattivare le relazioni sociali partendo dal buon vicinato. In questi otto anni sono stato testimone di come le relazioni abbiamo una potenza incredibile nel creare un mondo migliore. Ho assistito a matrimoni nati nelle social street, a progetti condivisi di gestione di beni comuni, a sostegno morale e psicologico di persone in difficoltà, ad esperienze di inclusione partendo da un “buongiorno”. Le social street hanno dimostrato come le relazioni aiutino a vivere meglio il luogo dove viviamo. E’ interessante osservare come continuino a nascere ed a vivere in autonomia, senza bisogno di leader, fondi, organizzazione, di regolamenti… un motivo ci sarà.

Se la politica facesse propri questi temi pensando al lungo periodo, sviluppando tutti i tasselli del puzzle in modo sistemico, probabilmente l’idea di un mondo più sostenibile non sarebbe così lontana.

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