Mondiali del 1970, 21 giugno, Stadio Azteca, Città del Messico
Brasile – Italia 4-1

L’uomo in maglia gialla è fermo immobile nel cuore dell’area avversaria. Solo che i suoi piedi non sono piantati sull’erba verde dell’Azteca. È sospeso in aria da un tempo ormai indefinito. Fluttua leggero, mentre il suo avversario viene trascinato giù dalla forza di gravità. La palla che arriva da sinistra picchia contro la sua fronte e schizza alle spalle di Albertosi. È molto più di un gol. È un’allucinazione collettiva. Perché per qualche secondo nessuno crede davvero a quello che ha visto. Ma è soprattutto un gesto che ridisegna l’estetica del calcio, che riempie copertine e cartoline, che prima diventa icona e che poi si trasforma in totem della nostalgia. Pelé lascia Burgnich steso sul prato e salta su Jairzinho per abbracciarlo. Gli altri finiscono sullo sfondo. Compagni e avversari. Tifosi e semplici curiosi. Tutti testimoni di una prodezza che diventa sentimento, espressione di un fuoriclasse che gioca a calcio ballando la samba. In quel momento gli italiani non sono più avversari. Sono comprimari, uomini che comunque hanno reso possibile uno dei momenti più alti della storia del calcio. Il pareggio di Boninsegna è una bugia. Perché fa credere agli azzurri di poter competere con Rivelino, Pelé, Tostão, Jairzinho, Gérson. Nel secondo tempo i verdeoro segnano ancora. Per tre volte. Finisce 4-1. Con Rivera che entra a sei minuti dalla fine. Una bestemmia che risuona in una chiesa vuota. L’Italia torna a casa con il morale sotto i tacchetti, ma con la consapevolezza di aver giocato quella che verrà ribattezzata la partita del secolo: Italia – Germania 4-3.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Successivo

Europei 2021, le avversarie dell’Italia oltre il campo – L’Inghilterra e la rivoluzione identitaria di Southgate: da compagni nemici a tribù

next