“Sono arrivata a Roma nel 2012, dopo otto anni a Londra. Conosco laboratori dove diventa complicato, a volte, anche fare un semplice ordine per le sostanze degli esperimenti. Qui in pochi parlano l’inglese, i finanziamenti sono scarsi, ma il livello è alto e l’Italia, ora, è la mia casa”. Si chiama Paraskevi Krashia, ha 39 anni, lavora all’Università Campus Bio-Medico di Roma ed è originaria di Cipro. In Italia ha vinto una borsa di studio per finanziare la sua ricerca per rallentare lo sviluppo del morbo di Alzheimer.

Paraskevi è nata e cresciuta a Cipro, si è trasferita in Grecia quando aveva 18 anni per laurearsi in biologia. Dopo la laurea, vola a Londra per un Master in Neuroscienze all’Ucl, dove rimane per sette anni, completando poi un postdoc a Cambridge. “La mia competenza è l’elettrofisiologia, uso dei piccoli elettrodi per studiare le correnti che passano attraverso le cellule neuronali”, racconta. “Nel 2012 sono entrata a far parte del laboratorio del professor Mercuri presso la Fondazione Santa Lucia di Roma. Questa esperienza è stata importante per comprendere le conseguenze delle prime fasi della malattia di Alzheimer: il mio principale interesse di ricerca, adesso, nel laboratorio del professor Marcello D’Amelio all’Università Campus Bio-Medico di Roma”.

Paraskevi è una delle 7 ricercatrici che si sono aggiudicate il bando “AGYR 2020” (Airalzh Grants for Young Researchers), con ambiziosi progetti che puntano allo studio delle fasi precoci dello sviluppo del morbo di Alzheimer. Airalzh Onlus è l’associazione che promuove a livello nazionale la ricerca medico-scientifica su questa malattia e altre forme di demenza. Nello specifico, Paraskevi sta studiando l’ippocampo, con l’obiettivo di cercare di rallentare il morbo di Alzheimer, diagnosticando in anticipo la malattia, con una tecnica non-invasiva per i pazienti. I primi risultati arriveranno dicembre 2021: la pubblicazione della ricerca condotta da Paraskevi è prevista tra due anni.

Londra era una città cosmopolita. Oggi nel mio laboratorio sono l’unica non italiana. Ma sono innamorata dell’Italia e della franchezza dei romani”. Tutto il resto, però, è stato un po’ più complicato. “La burocrazia e il tempo necessari per aprire un conto corrente, trovare un medico di base, ottenere un codice fiscale, cose che a Londra si fanno in poche ore, hanno richiesto settimane e moltissimi movimenti – racconta -. All’inizio ho camminato molto, non capendo come leggere le mappe degli autobus alle fermate, finché non ho preso una macchina”.

Dal punto di vista professionale, fare ricerca in Italia non ha nulla da invidiare alla ricerca all’estero quando si parla di “qualità, dedizione, impegno o idee”, spiega Paraskevi. “Non è un caso che molte delle università italiane siano tra le migliori in Europa. E parlo per esperienza personale quando dico anche che gran parte dei professori sono ben formati nelle loro materie e nel loro campo, e questo rispecchia le capacità degli italiani all’estero, che eccellono in vari ambiti”. In Italia per Paraskevi è però più difficile fare ricerca, a causa della “mancanza di fondi, delle opportunità per i giovani ricercatori e dei lenti avanzamenti di carriera”.

All’inizio del 2020 la pandemia ha rallentato tutto. Le riunioni si sono interrotte, la pianificazione di esperimenti tra colleghi è diventata più complicata, l’interazione tra le persone (“che è una parte essenziale per la ricerca, la risoluzione dei problemi e lo scambio di idee”) è diventata molto più difficile. “Per fortuna siamo riusciti ad adattarci rapidamente ai nuovi modelli durante la pandemia, e ora gli incontri online sono diventati la quotidianità. La maggior parte delle persone che conosco ha continuato a lavorare nonostante le restrizioni, le autocertificazioni e i vari regolamenti. Devi sapere che non è facile impedire a un ricercatore di lavorare quando ci sono esperimenti da fare”, sorride.

Per Paraskevi fare ricerca è sempre stato il “modo per rispondere alle tante curiosità, sin da quando ero piccola, e non credo che questa sensazione andrà mai via. È la mia via d’uscita. Non posso pensare di non fare questo lavoro”. Per ora le sue giornate si dividono tra la ricerca e l’assistenza alla didattica. Il suo sogno, un giorno, è quello di avere un laboratorio tutto suo. Tornare a Cipro? “Con il mio compagno ci abbiamo pensato tante volte ma arriviamo sempre alla conclusione che ci andremo da pensionati, magari in una casa vicino al mare”. Certo, c’è sempre la nostalgia del proprio Paese d’origine, mancano la casa, la famiglia e gli amici, ma qui in Italia “ho costruito una nuova vita, una seconda famiglia e una carriera. Ora – conclude – mi sento a casa”.

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