La mobilità scientifica rappresenta un fenomeno globale in costante evoluzione, in relazione ai mutamenti dei sistemi universitari e di ricerca dei paesi ospitanti e della situazione economica, in particolare di Paesi un tempo del cosiddetto terzo mondo e oggi in tumultuosa crescita. Non a caso muta anche il linguaggio di riferimento per definire il fenomeno, da Brain drain (furto di cervelli) a scientific diaspora e a brain circulation, che rappresenta in modo più rispondente una diversa dinamica di equilibri nei flussi di mobilità.

L’importanza che il capitale cognitivo degli scienziati espatriati può rappresentare per il proprio Paese è testimoniata dall’attività strategica ed efficace in particolare di Cina e India (le ultime arrivate) che curano queste relazioni in modo sistematico e qualificato, o della Nuova Zelanda, con il vasto programma “Kiwi diaspora” finalizzato a recuperare e curare il legame con i propri “talenti globali”.

In questo quadro l’Italia è stato storicamente un paese “donatore” di cervelli ad altri paesi e ancor oggi si tratta di un fenomeno imponente che trova ragione in diverse concause.

La ricerca Ricercare altrove (ed il Mulino) condotta dalla professoressa Chantal Saint-Blancat, sociologa dell’università di Padova, indaga il vasto mondo degli scienziati, ricercatori, docenti e dottorandi italiani all’estero, con l’intento di conoscere le motivazioni che li hanno condotti a scegliere di lavorare fuori dall’Italia, il grado di soddisfazione nella loro realizzazione professionale, l’inserimento negli ambienti universitari, il giudizio sulle condizioni di lavoro, sulla qualità dell’organizzazione, la qualità dei servizi di sostegno al lavoro, alla famiglia. Particolarmente approfondita la ricerca sulle esperienze delle scienziate e ricercatrici, i problemi e le difficoltà rispetto all’Italia.

Lo scopo della ricerca è conoscere il giudizio che i ricercatori danno dello stato della ricerca in Italia rispetto alla loro esperienza, il rapporto che hanno mantenuto con il nostro Paese, le aspettative di ritorno, gli aspetti critici di questa situazione. Infine si ipotizza un percorso di cambiamento dei modi di affrontare l’attuale fase di esteso disinteresse delle istituzioni italiane verso questo capitale cognitivo inutilizzato, per attivare una fase di diaspora organizzata, al fine di migliorare il modo in cui la ricerca scientifica in Italia possa accrescere i legami con i propri ricercatori all’estero e migliorare complessivamente questa situazione.

La ricerca ha indagato un campione di 2420 scienziati italiani in Europa, nelle materie di fisica, matematica e ingegneria. Si è svolta su due livelli, scontando in primo luogo la sostanziale mancanza in Italia di un elenco pubblico attendibile degli scienziati espatriati. Infatti al momento non esiste un censimento ufficiale dei ricercatori e scienziati all’estero, né del Miur né dell’Istat, a riprova della grave carenza di attenzione reale a un fenomeno che sistematicamente viene posto all’attenzione pubblica come uno dei nostri maggiori problemi. Periodicamente a riguardo si elevano alti lai! Si potrebbe definire con Durkheim questa condizione, come una vera e propria “anomia scientifica”.

La ricerca attraverso dei gate keeper ha individuato un primo gruppo di 83 persone tra gli scienziati e i ricercatori senior, in poli di ricerca di prestigio, ai quali si è proposta un’intervista di profondità, a carattere dialogico, per inquadrare tutti gli aspetti della loro esperienza professionale e di vita. La mole di dati raccolti ha condotto alla realizzazione di un secondo livello di indagine a carattere quantitativo (survey) “Se Esco”, “Scienziati Espatriati: Esperienze Suggestioni, Caratteristiche Opinioni”, condotta attraverso questionari. Il tasso di risposta del 25% ha prodotto 602 interviste, depurate poi a 528. I principali paesi di residenza degli intervistati sono Regno Unito, Germania, Francia, Svizzera, Paesi Bassi, Spagna, Scandinavia, Danimarca.

Dalle due indagini, in profondità e dalla survey, emerge un quadro del tutto particolare: i ricercatori italiani percepiscono di rappresentare poco o nulla per il Paese cui tengono moltissimo. Di fronte alla domanda: “in qualità di scienziato sarebbe importante per rappresentare una risorsa per l’Italia?” “Lei si sente una risorsa per l’Italia?” sono tutti concordi nell’affermare che l’Italia non vede in loro una risorsa, anche se potrebbero esserlo e per loro sarebbe importante.

Non si considerano “cervelli in fuga” dal momento che nulla hanno sottratto a un Paese che aveva niente da offrire, certo la gratitudine per aver potuto formarsi in università qualificate che hanno consentito di acquisire una preparazione competitiva di livello internazionale, ma niente di più. Anzi il rammarico, soprattutto per i “senior”, è la consapevolezza che l’Italia ha perso molto in termini di ricerca scientifica anche per il declino del sistema industriale pubblico e privato, che in anni lontani cercava e assumeva ricercatori e oggi molto molto meno.

Cionondimeno i ricercatori mantengono legami con i colleghi e con le proprie università di appartenenza: collaborazioni a progetti, meeting, sostegno a dottorandi e post doc, partecipazione a concorsi. Solo che si tratta di attività svolte per lo più a livello individuale o di piccolo gruppo, perché nessuna sollecitazione viene a livello della programmazione accademica e pubblica. È questo uno dei motivi di maggior rimpianto, le straordinarie potenzialità che avrebbe un lavoro sistematico di cooperazione scientifica tra chi lavora fuori e il Paese.

La conclusione se così si può dire del testo, in estrema sintesi, è la conferma del gap esistente tra il sistema universitario italiano dal punto delle opportunità di carriera per i ricercatori, e del suo livello complessivo di internazionalizzazione. Mentre è confermata la potenzialità della formazione universitaria nel nostro Paese per la qualità degli studi e di preparazione espressa dai laureati, confermato dall’affermazione degli stessi nelle università in cui svolgono il proprio lavoro. Sarebbe ora di uscire dal pressapochismo e dai tanti luoghi comuni, utilizzare questo valido studio, come altri che esistono, per ripensare una nuova strategia per l’università e i suoi ricercatori e ricercatrici.

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