“L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”. Macché Bartali: è la realtà del mondo della scuola nel maggio 2021 e sta già montando l’ennesima polemica. Un po’ di soldi sparpagliati qua e là per un fantomatico “Piano estate” che sembra concepito per permettere ai governanti di turno di finire sui giornali col solito ritornello: noi i soldi ve li diamo, ma i prof non sono interessati. Tradotto: gli insegnanti non hanno voglia di lavorare.

A me sembra l’ennesimo segno della fine della politica. Una politica che ha come interlocutori esclusivi i media e non riesce a più incidere sulla realtà, in particolare nella scuola dove, dopo un anno, tutti – studenti, famiglie e insegnanti – si stanno arrabattando per trarre in salvo una barchetta che fa acqua da tutte le parti.

Per comprendere questa realtà bastano le parole che un’insegnante, Luisa, di Mantova, ha postato qualche giorno fa su Facebook:

Molti colleghi, presi dal programma da seguire a tutti costi, appena rientrati in presenza hanno iniziato a fissare interrogazioni e verifiche a raffica. Ieri entro in una mia classe: per la lezione successiva avevamo la verifica (fissata da tre settimane). I ragazzi mi implorano di non farla. “Perché?” chiedo. “Prof questa settimana abbiamo otto verifiche (!!!) senza contare le interrogazioni”. Guardo in agenda sul registro elettronico, è vero… resto agghiacciata. E comincia uno sfogo a valanga. I ragazzi sono stremati, dicono che (giustamente) se hanno tutte queste verifiche, cosa imparano? Niente, perché non hanno neanche il tempo di fissare le cose. Giusto. La tensione cresce finché il più bravo della classe, urla tremante: “Questa non è scuola, io così non posso andare avanti, se bisogna continuare così quest’anno, io mi ammazzo!”. Non servono commenti. Lo mando in bagno a sciacquarsi la faccia e lo rassicuro che così non continuerà. Anche se dentro di me so che non è così.

È questa l’aria che si respira in aula, oggi. Aria avvelenata da virus che infettano il corpo e l’anima. Francamente non so quali siano i peggiori. Cosa possiamo fare?

Primo: smettere di agire solo (o soprattutto) per finire sui media. Vale per politici, dirigenti del MIUR e, ahimè, per qualche dirigente scolastico.

Secondo: smettere di dire, pensare, sfruttare la retorica per cui chi lavora nella scuola ha tre mesi di vacanze pagate ecc.

Sfido, letteralmente, sfido questi fenomeni da baraccone della tastiera (generalmente maschi e frustrati) a entrare e stare in presenza o a distanza in una delle migliaia di classi “normali” in cui un insegnante si deve barcamenare tra lo stress degli alunni, le provocazioni dei medesimi, le richieste dei dirigenti, le pressioni delle famiglie ecc. Vediamo se torna a casa tranquillo e sereno dopo il lavoro, il signor fenomeno…

Mi viene in mente quando incontrai un ex compagno delle superiori che non vedevo da anni. Era diventato ingegnere, professionista di successo. Mi raccontò che dopo l’università aveva iniziato a insegnare, ma appena possibile era fuggito dalla scuola: “Non riuscivo più a resistere: in classe c’è una pressione emotiva pazzesca. Molto meglio stare in ufficio, o andare in cantiere e dare ordini a qualcuno che ti ubbidisce!”.

A scuola ci vai per allevare il futuro, non per dare ordini a soldatini e neppure a impartire istruzioni. Per quelli sono sufficienti i tutorial su youtube. Per insegnare serve una forza emotiva che nessuno ti insegna all’università e che nessuno ti chiede di avere quando fai il concorso. Da qui, però, si potrebbe ripartire: dalla consapevolezza che nel mondo post Covid-19 non sono i banchi quel che servono di più e, attenzione, neppure le tecnologie, che ormai ne abbiamo fin troppe.

Servirebbero piuttosto strumenti di consapevolezza per affrontare questo caos sociale che siede sui banchi di fronte a noi ogni mattina e ci guarda con gli occhi sgranati dalla disperazione, dallo stress, dalla depressione. Noi siamo lì per insegnare, non siamo psicologi, ma con loro possiamo volentieri collaborare. È un punto di partenza piccolo, ma concreto, per intervenire e incidere, per “far sentire” il sostegno delle istituzioni. Ma non c’è già lo psicologo scolastico per questo? Per niente. Per quel che è il suo ruolo attuale è utile solo per diventare l’ennesimo parafulmine su cui si scaricano le tensioni delle centinaia di alunni di un istituto.

E quindi?

Se invece di buttare soldi in un piano per trasformare le scuole estive in enormi centri ricreativi, si finanziasse un percorso di supporto psicologico ai ragazzi e alle famiglie come avviene in Francia, questo sì, sarebbe d’aiuto.

Affrontiamola questa realtà, che non è riducibile a un po’ di tecnologie in più, o qualche corso per imparare a utilizzare l’ennesima piattaforma digitale o al problema dei banchi. Cominciamo a costruire una scuola che parta da un’alleanza che aiuti a disinnescare quell’esplosione che è ogni momento dietro l’angolo, perché ogni mattina le nostre classi sono pentole a pressione sul punto di scoppiare. Spazi dentro cui rinchiudiamo i nostri alunni e i nostri figli per 5/6 ore al giorno imponendogli di non spostarsi dai banchi e possibilmente di non respirare o di farlo sottovoce, senza disturbare.

Siamo a un bivio. Da una parte possiamo ripartire dalla realtà per cominciare con umiltà a percorrere strade inedite di collaborazione e innovazione sociale ed educativa. Dall’altra possiamo ricostruire il vecchio, che presto crollerà con un boato, sopra le nostre teste.

Se crolla un ponte è una disgrazia, una tragedia, a volte una colpa. Ma se viene meno un sistema sociale complesso come quello educativo, che connette il passato al presente e al futuro, possiamo aspettarci solo tempi torbidi, tempi in cui la democrazia se ne va in putrefazione anche se magari se ne continua a chiacchierare amabilmente nei talk show tra giornalisti e politici, appunto. I quali, evidentemente, sembrano non avere figli che vanno a scuola per non sapere quello che succede in aula ogni mattino.

È un rischio da guardare con occhi aperti quello che abbiamo di fronte. Il crollo della funzione sociale della scuola apre la strada alla fine della democrazia. E senza democrazia quel per ora è solo un fetore insopportabile si manifesterà per quel che è davvero: una porcilaia. A ricordarcelo presto sarà, tra l’altro, il centenario della fondazione del partito fascista (novembre 1921). Quando sarà appena iniziato il prossimo anno scolastico, appunto. Cent’anni dopo, precisi precisi.

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