“Ha il saturimetro a portata di mano? Lo attacchi al dito e controlli come va. Io aspetto in linea”. Nella sede Usca dell’Azienda Ausl di Modena sono le 14 ed è il momento delle chiamate: i sanitari di turno contattano i casi segnalati dai medici di base e cercano di capire se serve una visita domiciliare dell’Unità speciale di continuità assistenziale o se vanno dirottati subito al Pronto soccorso. L’aria è pesante: negli ultimi giorni i contagi si sono impennati, i telefoni continuano a squillare e i bollettini dicono che è solo l’inizio. In questa fase critica, non ci sono solo le terapie intensive e gli ospedali pieni, ma anche medici in prima linea che si trovano ad affrontare il peggio esattamente un anno dopo l’inizio della pandemia. “Signora con questi sintomi non mi sento tranquilla, è necessario che vada subito in ospedale”, dice una delle dottoresse abbassando la voce. “Prepari la borsa con un cambio. Lo so che ha paura, ma non possiamo rischiare”. Poco distante il collega segna le caselle del foglio per l’anamnesi, nell’altra stanza si ottimizza il tempo controllando i rifornimenti di farmaci e materiale. Nell’ufficio, allestito ad aprile scorso nella sede dei poliambulatori per fare il più in fretta possibile, ci sono cinque dottoresse e un dottore: sono tutti specializzandi sui 30 anni e da dodici mesi hanno deciso di rispondere all’appello per lavorare sul campo. “Il controllo del territorio è fondamentale, soprattutto adesso che dobbiamo affrontare la terza ondata”, commenta la dottoressa Lucia Cavazzuti, direttrice cure primarie. La situazione in Emilia-Romagna è tra le più critiche: solo a Modena nelle ultime ore ci sono stati 414 contagi e sabato l’Ausl ha fatto un appello perché chi non ha patologie urgenti non vada al Pronto soccorso. Il sistema ospedaliero, di fronte a un aumento simile di casi, rischia l’eccessivo carico. E le Usca possono essere l’arma in più per fronteggiare l’ennesima ondata. La regola è una sola: chi può, va curato a domicilio. Solo così si potrà alleggerire la pressione sui reparti.

Proprio per il radicamento sul territorio che comincia a consolidarsi, i medici delle Usca sono stati tra i primi ad accorgersi che qualcosa è cambiato rispetto alla prima fase. “Stiamo notando, a causa in particolare della variante inglese, che a essere colpita è soprattutto la popolazione giovane” ovvero “adolescenti e giovani adulti“, dice Cavazzuti. E il primo segnale è arrivato dalle scuole. Nella settimana del 22-28 febbraio, ad esempio, “avevamo 160 focolai, un numero elevatissimo. Ai tempi della prima pandemia arrivavamo nei picchi massimi a 70/80. Questo ci fa capire che il target delle varianti è la popolazione giovane e infantile“. Anche se la dottoressa fa una precisazione: “La mia sensazione è che non sia tanto l’ambiente scolastico, quanto quello extra scolastico” all’origine dei focolai. “Il calo dell’attenzione sulle misure è stato soprattutto nel tempo libero. I giovani si contagiano di più, hanno sintomi. E poi portano il virus a casa, ai genitori e agli anziani, persone suscettibili di diventare casi gravi“. Questa è una delle differenze con la prima ondata, spiega: a marzo scorso erano perlopiù “asintomatici”, ora hanno la febbre e la tosse. Senza dimenticare che, aumentando i contagi in età più basse, “si possono osservare casi più gravi” anche tra questi pazienti. “Non sono tantissimi, ma iniziamo a vederli”. In generale, l’incidenza della varianti, continua Cavazzuti, “si riflette sull’aumento dei ricoveri, che ha segnato + 60%. E anche sull’aumento dei casi isolati a domicilio che nel giro di un mese sono raddoppiati“. Attualmente in provincia di Modena se ne contano circa 14mila, di cui il 9 per cento sintomatico. “E’ proprio su questi pazienti che si concentra il nostro lavoro. E’ ovvio che quanto più i pazienti possono essere gestiti a domicilio, tanto più gli ospedali rimangono liberi per i pazienti veramente gravi che necessitano di cure ospedaliere”.

A Modena e provincia le Usca hanno otto squadre attive, composte da due medici ciascuna. Per un totale di circa 60 sanitari coinvolti. “Sono numeri importanti”, commenta. E questo soprattutto in confronto con altre Regioni dove il servizio è stato attivato con grande difficoltà. Qui invece sono nate solo 20 giorni dopo il decreto del ministero e, da fine marzo scorso, hanno gestito circa 15.000 contatti telefonici, 3.700 visite domiciliari e 3.000 visite nelle strutture per anziani. Le squadre operative sul territorio, oltre all’attrezzatura tradizionale, hanno in dotazione anche ecografi portatili che permettono di valutare lo stato delle polmoniti. Chi ha dubbi inoltre, può contattare uno “specialista on call” (infettivologo, pneumologo o cardiologo) reperibile tramite un numero verde e disponibile a fornire assistenza ai sanitari sul territorio. Da novembre, è stata attivata anche una Usca pediatrica che, facendo riferimento al pediatra di libera scelta, va a casa dei bambini che hanno meno di sei anni. “Al rientro presso la sede, le squadre richiamano il collega e si chiude il cerchio sul caso. Le Usca funzionano bene perché fanno da ponte con l’ospedale“. Senza dimenticare che, “in questa fase più che mai”, conclude Cavazzuti, “è molto importante il ruolo del medico di medicina generale, perché è quello che conosce i suoi pazienti da sempre, fa da filtro e da sentinella per cogliere i primi segnali d’allarme. Parte tutto da lì”.

Il tempo passa e le chiamate continuano: almeno una decina in poco più di un’ora. Intanto nell’altra stanza Chiara Migliorini, 30 anni e specializzanda in Medicina generale, sta preparando lo zaino per iniziare le visite a domicilio. “Oggi è una giornata impegnativa”, dice abbozzando un mezzo sorriso mentre i colleghi camminano avanti e indietro per la sala con il telefono all’orecchio. “Diciamo che” negli ultimi giorni “il numero di telefonate è consistente. Oscilla molto sulla base di chiusure e aperture che si fanno, noi vediamo come una fisarmonica“. La metafora è molto azzeccata e indica l’andamento “fluttuante” dei contagi: “Quando c’è la zona gialla noi sappiamo che dopo due settimane le telefonate saranno più numerose“. Ed è proprio in quei giorni che psicologicamente, racconta Migliorini, è più dura: “Subito non realizzi, poi però torni a casa e magari vedi la tv e i servizi con la gente accalcata e un po’ di rabbia viene”. Soprattutto ora che, come ha detto la dottoressa Cavazzuti, sta cambiando l’età dei pazienti: “In questo momento stiamo riscontrando diversi giovani con saturazioni basse, febbri alte che durano per giorni e debolezza. Una sintomatologia non preoccupante per la vita del paziente, però sperimentano proprio la malattia. Ci danno da pensare. Anche noi siamo un attimo spiazzati da questa evoluzione nei ragazzi più giovani“. La dottoressa Migliorini ha iniziato a lavorare con le Usca ad aprile scorso. “Alla fine siamo tutti dentro questa situazione. Anche noi siamo giovani, anche noi vorremmo uscire con gli amici e svagarci”. E’ sempre più dura però, chiude la dottoressa, nel lavoro sul territorio lei e i suoi colleghi hanno trovato grandi soddisfazioni: “Cerchiamo di far sentire i pazienti non abbandonati e di portarli in ospedale solo quando è necessario, né troppo presto né troppo tardi. Per molti è importante anche solo essere visitati e avere una mano appoggiata sulla spalla”.

La finestra per le telefonate si chiude in fretta, risucchiata dalle richieste che arrivano da tutta la provincia. Alle 16.30 il gruppo spegne i telefoni, chiude le cartelle e si prepara: il tempo di fare un punto, indossare la divisa e si parte. Elena Mari ha 29 anni, è specializzanda in Medicina generale ed è stata assegnata al centro città insieme alla collega Francesca Ferrari. Non hanno molto tempo: le chiamate sono state troppe e per evitare di far slittare le visite all’indomani, devono muoversi. Il primo paziente è un signore anziano, apre la porta la moglie e in sottofondo il cane non smette di abbaiare. “Signora prima una di noi si cambia e poi può aprirci la porta”, la ferma subito la dottoressa Mari. E’ una delle fasi più delicate: un membro della squadra si deve cambiare, l’altro resta fuori ad assisterlo per passare medicine e attrezzature. Quando la collega è pronta entra e Mari rimane sul pianerottolo ad aspettarla, cercando di tranquillizzare con lo sguardo i vicini che passano allarmati: “Inizia a essere stancante”, dice sospirando. “Psicologicamente ed emotivamente. Nelle scorse ore, confrontandoci tra i vari distretti, ci siamo resi conto che ci sono più casi di persone giovani e con pochi fattori di rischio. E questo è brutto. Soprattutto visitare persone in queste condizioni e non vedere mai una fine”. Stanno aumentando, continua “i casi dei 40-50enni”. “Non riesco a vedere una fine. Siamo molto lontani da una fine”. La più grande difficoltà, dice, “è ricoverare le persone molto anziane”. Perché molte volte “associano il ricovero alla morte. Ma non è vero. Serve per fare più accertamenti”. E poi “c’è chi preferirebbe un percorso di cure palliative, ma ancora non è stato attivato”. E proprio far ragionare i pazienti è uno dei compiti di chi lavora nelle Usca che, mai come in questi momenti, deve riuscire a mantenere un’umanità dietro la coltre di tute e mascherine: “Per noi è diverso dall’ospedale. Sono io che vengo a casa tua. Sei tu che mi accogli. Per comunicare possiamo ancora usare il tono di voce e gli occhi. Io all’inizio, mi ricordo, mettevo sempre i pantaloni viola perché così ricordavo un po’ arlecchino. Sono piccoli gesti utili per sdrammatizzare”. La porta si riapre. Esce la collega e inizia la procedura di svestizione. “Com’è andata?”, è la prima domanda. “Non benissimo, deve andare al pronto soccorso, ma il signore non è dell’idea. Ora parliamo con il suo medico curante”. Serviranno un po’ di mediazioni e compromessi, tranquillizzare il paziente prima di tutto e convincerlo che è la scelta migliore. Mari ormai è abituata e sa che una soluzione si può ancora trovare: “Io credo molto nell’importanza del nostro compito in questi momenti, come nel ruolo del medico di medicina generale”. Raccolgono lo zaino e ripartono, c’è già un altro paziente in un’altra casa che le aspetta.

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