Suona il telefono del reparto della terapia intensiva. La dottoressa fissa lo schermo: non è l’ora delle chiamate ai famigliari, non può rispondere o si accavallano le procedure. Ci ripensa. “Signora solo una cosa al volo, poi la richiamo”. Abbassa la voce. “Lo abbiamo estubato, ora stiamo a vedere”. Mette giù. “La signora è molto preoccupata, il marito ha solo 50 anni. Sotto si sentivano voci di bambini”. Fa un respiro. “Anche mio marito è stato ricoverato qui. Allora ero io quella che piangeva e ho capito cosa vuol dire stare dall’altra parte”. Dietro la mascherina si commuove ancora, lo dicono gli occhi. Ma ha il viso coperto, nessuno se ne accorge e ricomincia da dove era rimasta. “Qui davanti vedete un altro paziente Covid di 50 anni, intubato, nessuna comorbità. E’ peggiorato in quattro giorni e abbiamo deciso di attaccarlo all’Ecmo, una macchina per l’ossigenazione extracorporea. E’ il tentativo estremo. Il 75% di questi pazienti muore comunque, ma noi ci proviamo”. Ospedale Sant’Orsola, Bologna, poche ore dopo l’annuncio che la città è zona rossa. La dottoressa Daniela Di Luca presenta i casi ricoverati nella sua terapia intensiva. La situazione evolve mentre parla, l’ospedale cambia faccia di ora in ora e cerca di stare al passo con l’arrivo serrato di nuovi malati: “Sono le 10 del mattino e stiamo già aspettando 8 nuovi ingressi”. Sembra il trailer di marzo scorso, solo peggiore: in dieci giorni Bologna ha assistito a un’impennata di contagi che non ha precedenti neppure con un anno fa (solo ieri oltre 700). A fare paura sono le varianti Covid, prima di tutto quella inglese. “La nostra impressione è che la malattia ora abbia un decorso ultra rapido. E la gravità del quadro clinico è molto superiore”. Ma non solo: è calata l’età dei ricoveri in terapia intensiva. “L’altro ieri sono arrivati una 38enne e un 40enne. La fascia va dai 45 ai 60 anni“. Sempre qui è ricoverata una bambina di soli 11 anni, la cui prognosi rimane riservatissima.

Di Luca è una cardio-anestesista, di Coronavirus ha iniziato a occuparsi esattamente 12 mesi fa. C’era quando i malati arrivavano dalle altre province, c’era quando a ottobre i casi sono tornati a salire. Ora si prepara a uno dei momenti più duri, quando si deve ricominciare tutto da capo per far fronte a quella che si preannuncia come l’ondata peggiore. Non lo dice che è stanca, spiega come faranno in modo di occuparsi di tutti i pazienti e come il sistema reggerà ancora una volta. C’è un però e salta fuori quasi subito: “Io sono tornata a lavorare 14 ore al giorno, a non dormire e a vivere qui dentro. E tutto perché ci sono stati dei comportamenti irresponsabili. Vedo assembramenti, persone che portano male le mascherine e che non rispettano le regole. Non mi sembra una cosa giusta nei confronti di questi pazienti e di noi operatori“. Il clima è molto teso: l’impressione è che si debba ripartire da zero e che questa volta le energie possano non bastare. Negli ultimi giorni ci sono stati reparti riconvertiti, per l’ennesima volta, in area Covid dalla sera alla mattina e con loro anche il personale. Tra questi c’è la dottoressa Ilaria Serio, dirigente di medicina interna. Sta per entrare in servizio, si prepara a indossare la tuta protettiva e iniziare la sua giornata. Dovrà resistere vestita il più possibile: a ogni pausa, che sia per andare in bagno o per bere un goccio d’acqua, dovrà poi disinfettarsi da capo. Quando parla le trema la voce, ed è soprattutto per la rabbia: “Io vorrei far passare un messaggio”, dice con il tono di chi a quel messaggio pensa da settimane. “Le nostre capacità di resilienza non sono inesauribili, anzi forse sono in via di esaurimento. Parlare di eroismo dei medici deresponsabilizza la collettività: serve la collaborazione di tutti. Quando vediamo o sentiamo le persone che non credono all’esistenza del virus, ci sentiamo molto soli”. La fatica è fisica, come psicologica. Sia nel vedere i tanti fallimenti, ma anche nel riuscire a stare vicini ai pazienti in condizioni che rimangono estreme. Negli ultimi mesi l’ospedale ha autorizzato l’ingresso di un parente in alcune circostanze per non lasciare soli i malati. Ma non basta. “Molte volte i pazienti ci chiedono ‘chi siamo’, perché mascherati siamo tutti uguali e non ci riconoscono”. E’ alienante per chi soffre, come per chi prova ad assisterli. Il direttore del reparto, Fabio Piscaglia ascolta e annuisce: “Ci ferisce molto sentire che alcuni cittadini accusano noi delle varie problematiche di questi mesi. Io capisco la stanchezza, ma il virus non la capisce. E più ci si contagia, più si creano varianti che possono mettere a rischio l’efficacia del vaccino”. A un piano di distanza c’è Andrea Zanoni, direttore del centro di rianimazione. Nessuno di questi medici ha tempo per incontrare i giornalisti, ma si fermano tutti perché cercare di comunicare al di fuori quello che succede è diventato fondamentale per chi, giorno e notte, combatte contro un virus che sembra vincere sempre e all’improvviso si sente anche senza alleati. “A me il comportamento dei cittadini rimane incomprensibile. Sono talmente tante le persone malate che ciascuno di noi conosce qualcuno contagiato o in terapia intensiva. Ma è come la sigaretta: finché non ti viene il cancro al polmone, pensi che toccherà a qualcun altro”. Per i rianimatori, dice Zanoni non è solo “frustrante”. “Noi siamo medici sintomatici, se un paziente non respira, lo ventiliamo, ma non lo stiamo curando. Aspettiamo che la malattia passi. E’ molto triste. Perché vediamo morire una quantità di persone che non abbiamo mai visto in vita nostra”. Zanoni quando parla dei focolai ha le idee molto chiare: “A marzo io mi ero isolato e avevo paura di contagiare la mia famiglia. Adesso quando entro in casa e vedo i miei figli di 15, 16, 18 anni, ho paura che siano loro contagiosi. Lo so che pagheremo sull’ignoranza dei ragazzi, i miei figli saranno più ignoranti, però in compenso sono vivo. Se la scuola è chiusa, il ragazzo non infetta il babbo che infetta il nonno. E poi noi qui abbiamo il padre e il nonno. Lo abbiamo visto. Come abbiamo avuto madre e figlia che hanno fatto un pranzo in famiglia. Il contagio viene dal basso”.

A Bologna l’allerta è massima. Solo il weekend scorso, la città ha bruciato 180 posti letto per i ricoveri. Attualmente al Sant’Orsola, uno dei principali ospedali della città, ci sono 283 ricoverati. E sono pieni: non si entra se non si libera un posto. I contagi nelle ultime 24 ore sono schizzati, soprattutto in provincia dove sono arrivati a 400 casi su 100mila abitanti. E il numero è in continuo aggiornamento: il picco è atteso fra due settimane. “In questo momento”, dice Piscaglia, “abbiamo ricoverati più malati della prima ondata. Senza dimenticare che a marzo scorso, chi aveva altre patologie stava a casa. Ora abbiamo anche i malati ordinari e la somma totale è molto difficilmente gestibile”. Negli ospedali la riconversione è in corso, ma con l’obiettivo di preservare il più possibile l’attività non Covid, a partire dagli interventi oncologici. Perché mollare tutto, comporterebbe troppi rischi per gli altri pazienti. Chi poi è fondamentale che regga in questo momento è l’altra prima linea, quella dei medici di famiglia. “Noi”, spiega Maurizio Camanzi, segretario del sindacato Fimmg Bologna, “fino a metà gennaio avevamo 6 o 7 casi a settimana, ora sono 8 al giorno. L’aumento esponenziale lo vedono anche i medici di base”. A preoccupare è il tracciamento che ormai, dice, “rischia di essere fuori controllo“: “Più crescono i casi e meno si riescie. Noi comunque segnaliamo i conviventi e molto spesso vediamo che a portare il virus a casa sono i ragazzi. Ma ad aver provocato questa situazione è una concomitanza di fattori, dai ritardi dei vaccini al poco rispetto delle misure di sicurezza”.

Nelle ultime ore, le accuse più grandi sono cadute proprio sulle scuole. Rispetto a gennaio infatti, in Emilia Romagna i contagi in classe sono aumentati del 70 per cento con un picco “senza precedenti”, come ha detto l’assessore alla Sanità. Un dato drammatico per il mondo della scuola, soprattutto dopo che per settimane si è lavorato per tutelare la didattica in presenza. Ma ora tutti gli istituti sono costretti a chiudere. “Prendiamo atto della decisione”, commenta Fabio Gambetti, preside del liceo scientifico Righi, una delle scuole più grandi nel centro di Bologna. “Per mesi ci hanno detto che le scuole erano i luoghi più sicuri, ora sono i più pericolosi”. Secondo Gambetti, stando alla sua esperienza, sono state rispettate tutte le regole: “Aerazione, mascherine, distanza di sicurezza, dimezzamento delle classi, allestimento di nuove aule. Noi ci siamo attenuti con precisione alle indicazioni. Adesso i tecnici ci aiutino a capire cosa è andato storto“. Per gli insegnanti in prima linea, la situazione è ancora più complessa. “Io ho fatto lezione sempre con la finestra aperta, i ragazzi avevano freddo, ma era uno strumento in più per stare sicuri”, dice Jacopo Frey, docente Cobas di una scuola della provincia. “Ora però stiamo caricando gli adolescenti di eccessive responsabilità, sia per quanto riguarda i comportamenti che per la didattica in autonomia. Le istituzioni hanno messo in campo abbastanza per aiutarli?“.

In queste ore di nuova emergenza, sono più le domande che le risposte. E’ presto per avere certezze, intanto il virus va per la sua strada. Bologna intontita si è svegliata zona rossa e per molti è stata una scelta arrivata all’improvviso. Eppure i contagi aumentavano in tutto il Paese e gli ospedali iniziavano a veder riempire i posti letto. E proprio nei giorni in cui il presidente della Regione Stefano Bonaccini, andando dietro alle proposte di Matteo Salvini, diceva che nei luoghi sicuri sarebbe stato possibile anche cenare fuori la sera e di fatto lanciava un messaggio schizofrenico di tranquillità ai suoi concittadini. Ma c’è una realtà dentro i reparti e un’altra, parallela, per le strade del centro e della provincia. Le immagini che hanno segnato l’ultimo weekend a Bologna sono finite su tutti i giornali locali: la folla in giro per il centro e ai Giardini Margherita, il parco principale dove si radunano i bolognesi quando arriva la bella stagione. E’ difficile immaginarlo ora che la città si è svuotata, come dopo una sbornia della quale preferisce non parlare. In via Zamboni, simbolo e cuore della vita universitaria, c’è meno della metà delle persone di un pomeriggio pre Covid. In uno dei pochi bar aperti, gli studenti si mettono in fila ordinati, scrivono il numero di cellulare su un foglio, e poi si mettono a studiare al tavolino. “Per noi la socialità è finita“, dice Luca studente 20enne. “Quando si può ci troviamo nelle case, ma di tutte le attività che si potevano fare prima non è rimasto niente. Le aule studio sono su prenotazione, ma non ci si può fermare a parlare e le lezioni sono tutte online”. Poco più in là, sotto le due Torri spicca il manifesto che chiede la liberazione dello studente egiziano Patrick Zaki: quando la città si svuota, sembra ancora più solo. Piazza Verdi, come piazza San Francesco, due dei luoghi messi sotto accusa per gli assembramenti, sono state transennate per evitare che le persone si siedano o sostino ammassate. “Negli ultimi tempi c’era una baraonda”, commenta un negoziante di via del Pratello. “La gente si sfoga sempre prima che tornino le restrizioni. Ci vorrebbero più controlli, ma mancano le forze necessarie anche per intervenire”.

Dietro piazza Maggiore, nel cuore di quel distretto che ha rilanciato l’etichetta “Bologna città del cibo“, uno dei luoghi simbolo come il Mercato di mezzo sembra abbandonato: il guardiano passeggia avanti e indietro nella sala che fino a pochi giorni fa era piena di stand di street food e ora è completamente deserta. “Non conviene a nessuno l’asporto, per questo hanno chiuso”, dice. “Sono stati aperti, ma ogni volta era una fatica far rispettare il distanziamento. Ho dovuto chiamare il 112 più di una volta”. Se uno arrivasse oggi, non potrebbe credere che quello era diventato uno dei luoghi più ricercati, soprattutto dai turisti di passaggio. Ora c’è solo un guardiano rimasto a vigilare: “Speriamo che finisca presto”. Nel pomeriggio che precede il nuovo lockdown annunciato, i bolognesi sembrano solo disorientati. I parrucchieri, anche loro chiusi da oggi, sono quasi tutti pieni. Davanti ai bar, qualcuno ci prova e si ritrova ancora per l’aperitivo, con il bicchiere di plastica in mezzo alla strada. Intanto la Sala Borsa, la storica biblioteca comunale che si affaccia sulla fontana del Nettuno, è blindata: era una piazza coperta, un luogo di passaggio e di incontro anche solo per sfogliare i giornali, ora è costretta a portare i libri a domicilio. Vicino alla stazione, uno degli ultimi hotel rimasti in funzione si prepara a chiudere. E’ nato per ospitare eventi e congressi, è stato teatro di tante presentazioni politiche, e fino a un anno fa era il punto di riferimento per chiunque dovesse venire per lavoro a Bologna. Troppo grande e troppo costoso tenerlo aperto semivuoto. “Per un po’ abbiamo affittato la sala per le riunioni di condominio, le uniche che erano ancora ammesse”, raccontano. “Ma non basta più. Bologna era diventata così bella, il Covid ci ha fatto precipitare in un abisso“. Un abisso del quale, almeno per ora, si fa fatica a vedere il fondo.

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