“Non risulta e non è stata comprovata la circostanza che, in assenza di immediate misure cautelari, per l’appellante si produrrebbe uno specifico pregiudizio irreparabile”. Il giudice Luigi Maruotti, presidente della IV sezione del Consiglio di Stato, ha motivato così il “no” alla richiesta di ArcelorMittal di sospendere l’ordinanza del sindaco di Taranto – validata dal Tar di Lecce – che impone all’azienda di spegnere gli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva entro 60 giorni perché pericolosi per la salute umana. La decisione, in realtà, non è favorevole ad alcuna delle parti poiché il magistrato ha chiarito che la decisione di sospensione in attesa della sentenza di merito del Consiglio di Stato sarà presa dal collegio il prossimo 11 marzo.
Insomma, niente sospensiva per il momento, ma non può essere escluso che arrivi in quella data. Il “no” del presiedente Maruotti infatti è legato a due questioni. La prima è legata al fatto che l’esame dell’appello di Arcelor dovrà essere valutata “nel rispetto del principio del contraddittorio” dal collegio di giudici anche in considerazione delle “delicate questioni controverse”. La seconda è che una sospensiva emessa l’11 marzo non crea alcun danno all’azienda perché “non sarà decorso” il termine imposto dal sindaco per la conclusione delle “operazioni di fermata dell’area a caldo e degli impianti connessi”.
Tutto è quindi ancora da decidere, ma intanto la storia giudiziaria dell’ex Ilva segna un nuovo punto: dopo la prima epocale sentenza del Tar che ha dato ragione al primo cittadino del capoluogo ionico affermando che “lo stato di grave pericolo” in cui vivono i cittadini di Taranto per colpa della fabbrica è “permanente ed immanente”, anche un secondo organo di giustizia amministrativa – il più alto tra quelli dell’ordinamento italiano – non accoglie una richiesta dell’azienda e chiarisce che “non risultano e non sono stati comprovati elementi tali da far ritenere che l’eventuale accoglimento della domanda cautelare in sede collegiale non sarebbe idonea a soddisfare gli interessi dell’appellante”. Insomma Arcelor dovrà attendere l’11 marzo per sapere se l’ordinanza del sindaco sarà o meno sospesa fino al 13 maggio, giorno in cui, il massimo organo della giustizia amministrativa si esprimerà nel merito e quindi deciderà se davvero l’area a caldo di Ilva va spenta o meno.
A Taranto, intanto, la decisione è stata accolta con favore da una parte del mondo ambientalista. Nella città pugliese giustizia penale e giustizia amministrativa sembrano per una volta viaggiare nella stessa direzione rispetto al nodo “salute-lavoro”. La richiesta della procura di 35 condanne per quasi 4 secoli di carcere nei confronti degli imputati del maxi processo “Ambiente svenduto” è giunta solo pochi giorni il verdetto del Tar di Lecce che ha evidenziato “il rispetto dei parametri emissivi” previsti dall’Autorizzazione integrata ambientale non comporta automaticamente “l’esclusione del rischio o del danno sanitario”. Rispettare le regole, ad avviso dei giudici amministrativi, non basta per continuare a produrre se questa attività crea danni alla salute di operai e cittadini. E il rapporto tra fabbrica e città, mai come in questo momento, sembra ormai giunto alla sua svolta finale.
Tutta la vicenda approdata ora davanti al Consiglio di Stato nasce dall’ordinanza del 27 febbraio 2020 con la quale il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci intimava ad ArcelorMittal Italia e Ilva in As di individuare entro 30 giorni dalla stessa ordinanza le fonti inquinanti del siderurgico, rimuovendole, e, in difetto di adempimento, di spegnere gli impianti entro ulteriori 30 giorni. Il Tar, a quasi un anno di distanza, ha dato ragione al sindaco rigettando gli appelli di Arcelor, del ministero dell’Ambiente e della Prefettura di Taranto confermando che alla multinazionale dell’acciaio che gestisce lo stabilimento siderurgico ionico sono assegnati circa due mesi di tempo “per il completamento delle operazioni di spegnimento dell’area a caldo”.
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