ArcelorMittal ha 60 giorni di tempo per concludere lo spegnimento degli impianti inquinanti dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto. La prima grana per il nuovo governo guidato da Mario Draghi arriva ancora una volta dal capoluogo ionico. Il Tar di Lecce ha infatti dato ragione al sindaco Rinaldo Melucci e con una sentenza notificata nelle scorse ore ha rigettato gli appelli di Arcelor, del ministero dell’Ambiente e della Prefettura di Taranto confermando che alla multinazionale dell’acciaio che gestisce lo stabilimento siderurgico ionico sono assegnati circa due mesi di tempo “per il completamento delle operazioni di spegnimento dell’area a caldo”.

Nessuna sospensione condizionale, nessuna operazione da eseguire in tempo per evitare il fermo. I sei reparti, già sequestrati nel 2012 dal gip Patrizia Todisco, ora vanno fermati. Per la prima volta la giustizia amministrativa è in accordo con il mondo ambientalista tarantino e il suo provvedimento è un macigno, la prima mina da disinnescare per il nuovo esecutivo. La questione lavoro-salute-ambiente nella “città dei due mari”, quindi, è ancora la battaglia principale per il governo. Dal 2012 tutti gli esecutivi hanno dovuto fare i conti col disastro ambientale e sanitario generato dalle emissioni velenose delle ciminiere dell’Ilva: da Mario Monti a Enrico Letta, da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni fino a Giuseppe Conte. Ora è il turno di Draghi che nel primo Consiglio dei Ministri, proprio mentre diveniva noto il pronunciamento dei giudici amministrativi, ha affermato che “il nostro sarà un governo ambientalista”.

Nelle 60 pagine che compongono la sentenza, i giudici del Tar di Lecce hanno ricordato come il sindaco Melucci abbia emesso due ordinanze in occasione di una serie di fenomeni emissivi che hanno suscitato clamore e paura a Taranto. Nella prima ha chiesto all’impresa e agli organi competenti le cause di quanto accaduto e soprattutto cosa intendessero fare per fare in modo che quei problemi non si debbano più ripetere. Istanze a cui, sostanzialmente, non sarebbero state offerte risposte adeguate secondo quanto chiariscono i magistrati. Ed è stato questo silenzio a dare vita alla seconda ordinanza nella quale, a febbraio 2020, intimava alla fabbrica di spegnere entro 60 giorni gli impianti dei reparti Acciaierie, Cokeria, Agglomerato, Altoforni, Gestione Materiali Ferrosi e Parchi minerali. Un’ordinanza legittima ed efficace secondo i giudici: il sindaco Melucci, insomma, ha pienamente a ragione. ArcelorMittal ha subito annunciato ricorso “immediato” al Consiglio di Stato, che potrebbe intervenire con una sospensiva in attesa del giudizio di merito.

Il provvedimento del sindaco, a parere dei giudici, è una difesa dei tarantini dato che è “pienamente sussistente la situazione di grave pericolo per la salute dei cittadini, connessa dal probabile rischio di ripetizione di fenomeni emissivi in qualche modo fuori controllo e sempre più frequenti, forse anche in ragione della vetustà degli impianti tecnologici di produzione”. Insomma gli impianti sono vecchi e la fabbrica è gestita male. Ma non è tutto. Il Tar ha chiarito infine un principio fondamentale che da sempre ha dettato la strategia difensiva delle società che hanno gestito l’impianto tarantino: rispettare le norme non significa non danneggiare ambiente e salute.

“Occorre in proposito sgombrare il campo da un equivoco che costituisce un leitmotiv della linea difensiva delle ricorrenti – hanno scritto nero su bianco – dal convincimento che il rispetto dei parametri emissivi previsti in AIA (autorizzazione integrata ambientale, ndr) comporti di per sé garanzia della esclusione del rischio o del danno sanitario”. Una tesi che ha salvato la produzione e l’economia per tanti anni, a scapito della salute di operai e abitanti. E se nel 2012 i decreti Salva Ilva era stati considerati rispettosi della Costituzione anche dalla Consulta era solo per un fattore temporale: il diritto alla salute poteva essere sacrificato per “un tempo ragionevole” in favore del lavoro, quel tempo è scaduto. I tarantini “hanno pagato – concludono i giudici – in termini di salute e di vite umane un contributo che va di certo ben oltre quei “ragionevoli limiti”, il cui rispetto solo può consentire, secondo la nostra Costituzione, la prosecuzione di siffatta attività industriale”. Le proroghe insomma, sono finite. A distanza di quasi dieci dall’esplosione del caso Ilva, la fabbrica dovrà fermarsi per bloccare il disastro ambientale e sanitario. Al nuovo “governo ambientalista” di Draghi il compito di gestire la situazione.

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