Un bando per affidare beni immobili confiscati direttamente alle associazioni del terzo settore. Sulla carta una novità, ma alla fine è stata l’occasione per scoprire che quei beni, seppure confiscati, erano in realtà ancora occupati. In alcuni casi persino da coloro a cui erano stati sottratti. È l’incredibile caso del bando dell’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati (Anbsc) che da quanto è emerso dalle audizioni dell’Antimafia siciliana aveva dato disponibilità di terreni di cui sapeva poco o nulla. In cui mai erano stati fatti sopralluoghi o erano stati fatti superficialmente. Lo scorso 16 gennaio, la stessa Agenzia annunciava con enfasi il risultato dell’assegnazione dei beni immobili confiscati: “Sono 160 i progetti presentati dagli enti ed associazioni del III settore che hanno partecipato al bando pubblico – indetto ai sensi dell’art. 48, comma 3, lett. C-bis del Codice antimafia – per l’assegnazione, a titolo gratuito e per finalità sociali, di immobili confiscati in via definitiva. Si tratta del primo bando pubblico predisposto per l’assegnazione diretta dei beni a favore degli enti ed organismi del III Settore e che, nonostante il carattere sperimentale, ha ottenuto un vasto consenso da parte degli Enti interessati all’iniziativa”.

Toni enfatici per l’assegnazione anche di contributi “fino ad un massimo di 50mila euro, per un totale di 1 milione di euro”. Sulla carta una novità, appunto, un’occasione. E nella realtà? “Nel bando finiscono mille lotti in tutta Italia – si legge nella relazione approvata oggi dalla commissione Antimafia siciliana – 600 solo in Sicilia. Le associazioni interessate devono chiedere di poter fare un sopralluogo per poi presentare un progetto di riuso del bene. Disponibilità finanziaria per sostenere le associazioni: un milione di euro, cifra simbolica se consideriamo che dovrebbe coprire tutti i mille lotti messi a bando che dà tempi stretti per richiedere ed effettuare i sopralluoghi (il 10 ottobre 2020) e per presentare il relativo progetto al 31 ottobre, (poi prorogato)”. Il problema vero però sono appunto i sopralluoghi: alcuni dei beni messi a bando sono “abusivi, altri sono placidamente occupati dai soggetti a cui teoricamente sarebbero stati confiscati, di altri c’è traccia solo sulle particelle catastali indicate nel bando, altri ancora non sono mai entrati del possesso e nella gestione dei coadiutori giudiziari che – letteralmente – ne ignorano l’esistenza”. Una situazione messa a nudo da chi voleva partecipare al bando. Così racconta Matteo Iannitti, responsabile di una delle associazioni che in provincia di Catania hanno provato a partecipare al bando: “Abbiamo potuto constatare che tra questi immobili, una gran parte sono completamente abbandonati – racconta Iannitti, audito in commissione Antimafia – sono in uno stato disastroso nel senso che nessuno li cura, nessuno ne cura le manutenzioni, abbiamo riscontrato un totale abbandono. Abbiamo riscontrato che il più delle volte avviene la confisca, ma nessuno controlla che quegli immobili siano liberati dalle persone che vi alloggiano”.

È il caso di Palagonia, in provincia di Catania, dove tra i beni messi a bando dall’Anbsc, risulta un agrumeto in contrada Alcovia di circa cinque ettari. Un bene definitivamente confiscato nel 2017 ai precedenti proprietari, Domenico Piticchio e Giovanna Sangiorgi. Quest’ultima è la sorella di Antonino Sangiorgi, ex consigliere provinciale dell’Udc, condannato definitivamente a cinque anni e quattro mesi nell’inchiesta “Iblis” su mafia e politica. Iannitti prova a contattare chi ha quel bene in gestione giudiziaria, il coadiutore, e scopre che “non ne sa nulla”. Riesce a saperne qualcosa solo grazie al circolo Arci locale, e “a loro risulta che quella proprietà sia tuttora coltivata. Addirittura ci hanno raccontato che i raccolti di arance continuano ad essere fatti come se niente fosse”. Il responsabile giudiziario per l’Agenzia, il coadiutore, è Angelo Bonomo. Lo è da due anni, ma di quei terreni non sa nulla: non è avvenuto il passaggio di consegne, spiega lui alla commissione siciliana: “Non è successo. Forse c’è stato del tempo perso… non è che ci sta una spiegazione”.

La spiegazione non c’è, i paradossi invece sembrano proliferare. Il capitano della caserma dei carabinieri di Palagonia, Francesco Conigliaro, audito dall’Antimafia, lo dice con chiarezza: “Noi veniamo a conoscenza quindi dell’esistenza di questo bene, il 20 ottobre del 2020”. D’altronde: “La banca dati Sippi – spiega ancora Conigliaro -, che è la banca dati dove appunto vengono inseriti i beni sottoposti a sequestro, non fa parte delle banche dati che sono accessibili all’Arma dei Carabinieri locale… Voi dovete capire che noi abbiamo 950 chilometri quadrati di territorio, quindi non è facile sapere tutto quello che è accaduto tanto tempo fa, perché parliamo del 2010, e che accade in contemporanea… se avessimo la possibilità di sapere quali sono i beni confiscati, io le garantisco che – sia che siano o che non siano inseriti tra gli obiettivi sensibili – sarebbe nostro interesse andare a vigilare”.

La storia si ripete in contrada Coda Volpe, dove le associazioni devono fare sopralluoghi per presentare i progetti per il bando, in terre e fabbricati rurali, una palazzina ed un garage, tutti confiscati definitivamente nel 2016 a Salvatore Paolo Sangiorgi (omonimo dell’altro Sangiorgi). I beni sono però occupati anche in questo caso, ma questa volta la situazione si sblocca più facilmente. E qui succede qualcosa di sorprendente: a permettere alle associazioni di fare i sopralluoghi sarà lo stesso Sangiorgi che vive lì assieme al figlio e alla moglie. “Il sopralluogo non ce lo ha fatto fare lo Stato, nonostante quello fosse un bene dell’erario, ma ce lo ha fatto fare la famiglia Sangiorgi che aveva subìto la confisca”, racconta Iannitti. Lo Stato d’altronde, pare non avesse neanche partorito un ordine di sgombero dai beni confiscati, o perlomeno “a noi non è arrivato”, assicura Conigliaro.

Poi c’è il caso di Gravina, sempre in provincia di Catania: l’Agenzia offre in gestione “un vero e proprio isolato – spiega Iannitti – un compound della famiglia Zuccaro, clan Ercolano-Santapaola. Si tratta proprio della casa del boss Maurizio Zuccaro che attorno alla sua villa con piscina aveva tutto un insieme di appartamenti dove abitavano i figli, la madre e altri congiunti”. Un bene confiscato nel 2018 “a cui si accede da una strada provinciale fino a poco tempo fa chiusa da una sbarra d’accesso e controllata da un impianto privato di telecamere a circuito chiuso: come dire, la famiglia Zuccaro voleva sapere chi si recasse a farle visita per poter decidere se fossero o meno visite gradite”, questo è quanto verificato sul posto dalla stessa commissione regionale. Qui le associazioni si rivolgono al coadiutore per il sopralluogo: “Chiamiamo l’amministratore giudiziario, l’avvocato Aiello. E ci dice: ‘Voi dovete sapere che se volete andare a fare il sopralluogo, dobbiamo andarlo a fare con i Carabinieri perché l’immobile è occupato’…”.

Dentro infatti ci sono proprio gli Zuccaro e per scoprirlo bastava un click. Quando il bando stava per scadere, infatti, Iannitti e compagni hanno spulciato i profili social degli Zuccaro, scoprendo dalle foto che il “compound” risulta occupato proprio da loro. Fatto presente all’Agenzia, una funzionaria suggerisce a questo punto di “scegliere altri beni da avere affidati visto che ci sono questi problemi…”, stando a quanto riferito da Iannitti che è anche coordinatore dei progetti e redattore de “I Siciliani giovani”. La richiesta di sopralluogo, intanto, stenta ad avere risposta: “L’avvocato Aiello ci propone di tornare successivamente quando l’Agenzia avrebbe chiesto l’intervento di un fabbro per aprire quegli immobili – prosegue Iannitti -. Facciamo notare all’avvocato Aiello che la nostra richiesta di sopralluogo è avvenuta il 10 settembre, che dal 10 settembre al 13 ottobre è passato più di un mese”. Il sopralluogo, alla fine viene fatto, forzando le serrature. Si è scoperto, infatti, che gli Zuccaro non avevano mai consegnato le chiavi. “Nel momento del sopralluogo non c’era nessuno, ma era evidente che i luoghi fossero abitati, addirittura trovano mascherine a terra”, segno inequivocabile di un’abitazione non lontana nel tempo. Aiello però riferisce all’Antimafia che i carabinieri tempo addietro avevano fatto un sopralluogo assicurandogli che il plesso era libero. Un dubbio sorge per forza: come hanno fatto ad entrare i carabinieri se le chiavi non erano state consegnate? La risposta del legale è esplicativa: “Io non credo che i Carabinieri siano entrati, credo che loro abbiano fatto un sopralluogo, abbiano bussato e non abbiano trovato nessuno da identificare”. Solo l’ultimo particolare di un bando che di certo ha offerto molte sorprese.

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