C’era una volta un certo Mida, mitico sovrano della Frigia, che ebbe magicamente in dono il potere di trasformare in oro ogni cosa che toccava. Si accorse ben presto, però, che convertendo in oro anche ogni cibo sarebbe ben presto morto di fame.

Mutatis mutandis, noi, una generica umanità collettiva, saremmo re Mida; e l’oro dilagante il benessere (o “la falsa ricchezza creata per sfuggire a false povertà”, come lo definì Alex Langer) che è cifra del nostro tempo. Inoltre, sia pur salvando la parte buona del progresso umano, una domanda sorge spontanea. Siamo tutti re Mida, o c’è qualcuno, e non poco in numero, che a causa e nonostante le grandi trasformazioni dell’età moderna è rimasto a bocca asciutta?

Quindi, di fronte alla “crisi delle crisi”, quella climatica, che direttamente ci riguarda, la scelta fra due parole all’apparenza simili può fare la differenza. Antropocene o Capitalocene? È appunto questo il titolo dell’omonimo libro del sociologo statunitense Jason W. Moore (ombre corte, 2017), il teorico e coniatore del secondo termine.

Ma facciamo un passo indietro per cercare di cogliere la differenza fra i due termini. Il concetto di Antropocene (alla ribalta già da alcuni anni sui media mainstream), coniato dal microbiologo Eugene F. Stoermer negli anni Ottanta del secolo scorso e reso celebre dal Nobel per la chimica Paul Crutzen a partire dal 2000, è anzitutto un’era geologica. Nonostante al momento sia ancora contenuta nella precedente, che va sotto il nome di Olocene, e il cui inizio si fa risalire a circa 11.700 anni fa, c’è una simbolica data di nascita dell’Antropocene che sembra assestarsi intorno al 1945, la fine della seconda guerra mondiale: un golden spike (segnale geologico che segna il confine fra due distinti intervalli temporali) che si colloca ai primordi della grande accelerazione, a sua volta definita dall’esplosione della prima bomba atomica e dalla, tuttora apparentemente irreversibile, contagiosa dipendenza da carbone e petrolio.

È inoltre, quella dell’Antropocene, una nozione fondata su puntuali diagnosi scientifiche, che dimostreranno ad un ipotetico tribunale della storia che a un certo punto è iniziata un’età superba, / che di vote speranze si nutrica (Leopardi), in cui l’uomo si è reso capace di produrre – e ha ciecamente voluto farlo – irreversibili cambiamenti del suo luogo e della sua fonte di vita.

Ma la domanda cruciale da porre a questa nozione, che probabilmente è anche una buona metafora per narrare le dimensioni del cambiamento climatico, è un’altra. Chi è l’uomo? Chi è il responsabile? Se le cause sono, per semplificare, carbone e vapore: chi c’è dietro? Noi disponiamo di due alternative risposte ad una tale domanda. La prima, antropocenica e non politicizzata, è la seguente: un Anthropos, un’umanità intesa come un tutto indefinito.

La seconda invece, “capitalocenica” e ben più politicizzata, è forse persino ovvia: il capitale e le classi dominanti del capitalismo moderno. Inutile dire che la prima contiene il forte rischio di indurre una stagnante rassegnazione (quasi avvolta in un’aura di peccato originale); mentre la seconda sembra poter offrire un barlume di alternativa.

Ma pretende due “piccoli aggiustamenti”, abilmente introdotti da Moore nella sua opera: spostare l’asse temporale della manifestazione delle cause dalla prima rivoluzione industriale (fine XVIII secolo) “all’ascesa del vasto ma debole capitalismo del lungo XVI secolo”, quella fase seguita, per intendersi, alla crisi della civiltà feudale (con tutte le sue distintive strutture socio-economiche) dopo la Peste Nera del 1348. Il cambio di prospettiva è straordinario. Il capitalismo e le sue invenzioni tecnologiche non sono nel 1800, come Atena, fuoriuscite improvvisamente dalla testa di un carbonifero Zeus. Bensì sono il frutto della formazione di una particolare classe inserita in un altrettanto particolare sistema economico: la borghesia capitalistica. E la sua ascesa si preparava già, come antedetto, da oltre tre secoli.

Se la responsabilità non è del carbone o del vapore, continua Moore, ma di una classe, di un assodato e condiviso modo di vita e di scambio, non bastano piccoli o grandi modifiche tecniche delle nostre organizzazioni sociali, politiche, economiche e industriali per invertire la rotta. Perché “spegnere una centrale a carbone può rallentare il riscaldamento globale per un giorno” (e lo abbiamo vissuto anche negli scorsi mesi di emergenza pandemica); ma “è l’interruzione dei rapporti che costituiscono la miniera di carbone che può fermarlo per sempre”.

L’età dell’oro del capitalismo sembra inoltre conclusa. Il suo apparente stato di salute dipende dalla finanziarizzazione dell’economia di tipo neoliberista: quella che ogni giorno acuisce sempre più le disuguaglianze fra ricchi e poveri, che sposta e accentra i capitali nelle mani dell’1%. La crisi è quindi strutturale, ma cosa l’ha generata? Secondo Moore si deve all’esaurimento della “natura a buon mercato”. Un concetto fondamentale in quanto è presupposto del “lavoro a buon mercato” (leggi: sfruttamento dei lavoratori).

Il salto di paradigma “capitalocenico” forse sta proprio qui: nel superamento del dualismo cartesiano (res cogitans contro res extensa) di uomo e natura, orientato ad una sintesi di uomo nella natura. Il valore non si costruisce sulla natura, bensì dentro la natura stessa; all’interno dei rapporti di potere, capitale e ambiente che non possono che essere considerati globalmente.

Per sfruttare il lavoro dell’uomo attraverso la produzione di un valore non retribuito, il capitale deve dare per scontata la gratuità della “natura a buon mercato”. Quando la “natura a buon mercato”, con la crisi climatica odierna, inizia a sfuggire ad ulteriori mercificazioni e privatizzazioni, il sistema capitalistico incontra dei limiti che non aveva ancora preso in considerazione.

Queste riflessioni ci pongono un imperativo. Quello, più volte già astrattamente formulato, di unire tutte le crisi e tutte le lotte. Una visione rivoluzionaria non può prescindere dal connettere in una stessa articolazione politica la crisi della biosfera e quella del lavoro produttivo (riconosciuto e retribuito) e riproduttivo (principalmente femminile, non retribuito e dato per scontato). Con tutte le questioni di diritti che ne derivano, da considerare però, come è inevitabile e giusto, su un piano concreto di rapporti di forza, di classe e di potere.

Questo non significa, ovviamente, attendere a braccia conserte una marxianamente intesa “rivoluzione che verrà”. Per un semplice motivo: non abbiamo tempo. Siamo costretti a fare il possibile per scongiurare, all’interno di tale sistema politico, sociale ed economico, il punto di ritorno: per avere il 66% di possibilità di farcela (che non è poi così tanto) dovremmo azzerare, almeno in Europa, le emissioni climalteranti entro il 2035. Chissà se (e se sì in che misura e a quale prezzo) il capitalismo sopra sommariamente descritto ce lo concederà.

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