La cultura popolare, dalle sue espressioni più alte a quelle più alla portata di tutti, pullula di città cadute e civiltà sull’orlo dell’estinzione, quasi tutte accomunate dall’incapacità di aprire gli occhi dinanzi alla propria fine, sordi ai richiami dei propri profeti e ciechi di fronte alle proprie responsabilità nel declino. Accade alla città di Troia con la Cassandra di Omero, Euripide e Shakespeare così come al pianeta Krypton con lo scienziato Jor-El, padre del Kal-El che diventerà Superman.

Nei giorni in cui Greta Thunberg si presenta alle Nazioni Unite con un disperato atto d’accusa ecologista, talmente coinvolto e coinvolgente a livello emotivo da avere ottime chance di sopravvivere alla ormai stucchevole bagarre tra entusiasti e meri denigratori, esce al cinema Antropocene – L’epoca umana, maestoso documentario firmato dai film-maker canadesi Nicholas de Pencier e Jennifer Baichwal insieme al connazionale fotografo Edward Burtynsky.

Il film è un viaggio imponente nei colori e nei suoni dell’Antropocene, ovvero dell’epoca geologica fittizia in cui l’essere umano incide sull’ambiente terrestre più dei processi spontanei dell’ecosistema che lo circonda. Il termine è in uso da circa tre decenni, ma si estende di fatto lungo un arco temporale che riguarda gli ultimi 12mila anni, il cui picco contemporaneo è l’aumento di CO2 e CH4 nell’atmosfera e, in generale, ciò che viene riconosciuto come la sesta estinzione di massa nella storia del pianeta, quella attualmente in corso.

Dal Kenya alla Svizzera, dalla Siberia alle profondità in cui è immersa una barriera corallina sempre più opaca, dalle vasche di litio in Cile alle cave di marmo di Carrara e ai laboratori di avorio di Hong Kong, il viaggio ritrae l’entusiasmo espansionistico di una razza umana sempre più maestra dei propri mezzi di alterazione dell’equilibrio circostante, sempre più tenace nel suo adattarsi alle condizioni di vita che il progresso le impone, raramente consapevole dei rischi a cui questo la espone, in termini di estinzione. Città sempre più megalitiche e macchine dalla potenza sempre più terraformante, tutte unite nel tentativo di modellare la natura per farsi spazio.

L’elemento di notevole interesse della pellicola è che i luoghi ritratti riguardano raramente un’umanità agiata e in grado di godere del profitto che il suo sfrenato progresso produce: si tratta piuttosto di un’umanità operaia, infinitamente più piccola della catena produttiva di cui non è che un ingranaggio senziente, tuttavia decisamente coinvolto. Non ci sono tycoon Greta-scettici né soloni della via Gluck a “inquinare” l’affresco, ma prospettive umane di tutti gli angoli del globo, tra loro lontanissimi, immersi fino al collo nella propria tecnosfera (cioè l’insieme degli elementi che il genere umano ha introdotto su questo pianeta, dalla plastica al cemento passando per le leghe metalliche artificiali).

A osservare un mondo perlopiù taciturno, in cui anche le specie animali in pericolo sono immerse in un malinconico silenzio – opposto al rumore sordo e freddo delle macchine – viene da riflettere sul percorso evolutivo dell’intero pianeta: se infatti l’umanità è parte integrante del suo ecosistema, è probabile che il corso preso dall’ambiente sia comunque naturale o, quantomeno, indirettamente tale.

La vita, per sua stessa definizione, ha un inizio e una fine. Vero, nasciamo con l’impulso di preservarla, ma questo non è garanzia del fatto che avremo successo, e che saremo quindi in grado di andare oltre i nostri limiti biologici. Il pianeta invaso dall’opacità della tecnosfera è meno brioso, ma comunque solido: siamo noi quelli che rischiano di trovarlo ostile alla nostra sopravvivenza. O, per dirla alla George Carlin, “the planet is fine, the people are fucked”.

A livello formale, i tre cineasti confezionano una pellicola perfetta, un mix di immagini e suoni in cui il giudizio rimane pressoché sospeso per gran parte della narrazione. Viste dall’alto, infatti, le megalopoli e i vasti terreni di lavoro tecnosferici sono imponenti, ma definiti quanto un graffito su un muro lontano: possiedono un fascino inquietante che non esclude un coefficiente di meraviglia e stupore per ciò che l’essere umano è riuscito a realizzare tentando di andare oltre se stesso.

A livello narrativo, sfortunatamente, il film non ci dice nulla che già non sappiamo, tanto più che la sua chiosa speranzosa è tradita da ciò che il film stesso illustra: a fare la conta numerica degli esseri umani al centro dell’opera, quelli che vivono, sopravvivono o prosperano (ma è davvero così?) di questo progresso rappresentano la maggioranza schiacciante nel globo. Le voci “consapevoli”, invece, sono ridotte perlopiù a una narrazione di fondo (quella di Alicia Vikander nella versione originale e di Alba Rohrwacher in quella italiana): malinconica, isolata, dolorosamente tardiva.

Parafrasando la Cassandra di Shakespeare, nel Troilo e Cressida:

Cry, Trojans, cry! Lend me ten thousand eyes,
And I will fill them with prophetic tears. (II,2,1096)

The gods are deaf to hot and peevish vows:
They are polluted offerings, more abhorr’d… (V,3,3294)

It is the purpose that makes strong the vow;
But vows to every purpose must not hold. (V,3,3301)

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