L’origine storica della spaccatura e l’analogia degli anni ‘20

Come l’intellettuale sardo scriveva su Il Grido del Popolo nel 1916, il fenomeno risale a ben prima dell’unificazione. “La nuova Italia aveva trovato in condizioni assolutamente antitetiche i due tronconi della penisola che si riunivano dopo piú di mille anni. L’invasione longobarda (…) nel Settentrione aveva creato una borghesia audace e piena di iniziative, ed esisteva una organizzazione economica simile a quella degli altri Stati d’Europa”. Nel Meridione invece “le paterne amministrazioni di Spagna e dei Borboni nulla avevano creato: la borghesia non esisteva, l’agricoltura era primitiva e non bastava neppure a soddisfare il mercato locale; non strade, non porti”.

Tali differenze sociali, culturali e politiche portano dapprima a un vero esodo di capitale finanziario e umano. “L’effetto fu l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno nel Settentrione (…), e l’emigrazione degli uomini all’estero per trovare quel lavoro che veniva a mancare nel proprio paese”. Divergenza ulteriormente inaspritasi con l’esplosione del primo conflitto mondiale. “Le imprese industriali del Settentrione trovano nella guerra una fonte di profitti colossali, e tutta la potenzialità (…) si circoscrive sempre più nel Piemonte, nella Lombardia, nell’Emilia, nella Liguria”.

Dagli scritti di Gramsci emerge nitida l’analogia tra la condizione dell’Italia negli anni ‘20 dei due secoli, “caratterizzata dalla rovina delle classi medie. (…) Si è verificata una restrizione dell’apparato produttivo proprio nello stesso tempo in cui aumentava la pressione demografica”. Oggi come allora, il Paese deve affrontare la propria vulnerabilità di fronte alla concomitanza tra pandemia, tensioni sociali ed economiche crescenti, fenomeni migratori, la delegittimazione di politica e media, amplificata da analfabetismo e menzogne sistematiche.

L’approccio glocale allo sviluppo territoriale

Per affrontare la questione meridionale, da vedersi non “soltanto come un problema di rapporto di classe, ma specialmente come un problema territoriale”, lo statista sardo indicava la “Repubblica federale” quale assetto istituzionale ideale per l’Italia. Allo stesso tempo però la sua evoluzione non poteva prescindere dal livello sovranazionale. “Solo inserendosi in una rivoluzione europea e mondiale, il popolo italiano può riacquistare la capacità di far valere le sue forze produttive umane e ridare sviluppo all’apparato nazionale di produzione”.

La visione glocale di Gramsci trovò affermazione nell’Europa post-bellica del costituzionalismo multilivello in cui, alla progressiva unificazione, crebbe il ruolo delle regioni. Processo attuato in Italia con la riforma del titolo V della Costituzione e il decentramento di competenze verso i territori, sulla base dei principi di “sussidiarietà” e “integrazione”. Un assetto che però ha palesato i suoi limiti per affrontare l’arretratezza meridionale e gestire emergenze come il Covid.

Più che puntare sulla revisione dell’impianto normativo, per dare risposta al Sud e ai territori marginali è necessario accelerare l’abilitazione delle comunità locali, un tempo delegata ai partiti e alle amministrazioni. A tal fine serve una rete capillare di agenti dello sviluppo, quelli che Gramsci definiva “intellettuali organici”, figure capaci di riunione teoria e prassi, sapienza e tecnica, di “immergersi nella realtà dell’opinione pubblica smettendo i panni di ingessati osservatori esterni”, di radicarsi nei territori e diventare collante tra istituzioni e società civile.

Tali agenti devono spingersi “in ogni fabbrica, in ogni villaggio… per attirare il più gran numero possibile di operai e contadini… per formarne degli organizzatori e dei dirigenti di massa, per elevarli politicamente”.

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