È passato un anno esatto da quando i razzi di Washington centrarono e uccisero Qasem Soleimani, il potentissimo capo delle Forze Quds dei Guardiani della Rivoluzione, uno degli uomini più potenti e protetti dell’Iran e braccio destro della Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei. Una mossa spregiudicata, quella del presidente Trump, che fece temere per un nuovo, sanguinoso conflitto in Medio Oriente e un’escalation di attentati terroristici. Tutto ciò non è successo, se si escludono singoli attacchi ad alcuni edifici americani in Iraq, ma in questi 365 giorni la tensione tra gli Usa e la Repubblica Islamica è tornata a salire grazie anche alla rottura dell’accordo sul nucleare voluta dall’amministrazione di Washington. Il 2021, però, inizia sotto una nuova luce: il 20 gennaio si insedierà alla Casa Bianca Joe Biden che punterà a rispolverare la strategia globale già adottata da Barack Obama e riprendere il dialogo con il governo di Hassan Rohani, nella speranza di tornare ai rapporti pre-Trump.

“Non vogliamo l’inizio di un’amicizia, ma vogliamo ridurre le tensioni inutili e l’ostilità”, “non c’è bisogno di trovare un nuovo accordo, lo abbiamo già. Se lo ripristiniamo, possiamo spegnere tutte le nostre centrifughe in un’ora“. Dal giorno dell’ufficialità della vittoria di Biden alle ultime Presidenziali americane, si sono comunque intensificati i messaggi di Teheran che tengono aperte le porte per il ripristino dell’accordo Jcpoa. Ma senza nuove contrattazioni o modifiche rispetto a quello partorito insieme all’amministrazione Obama e ai Paesi europei e che aveva dato inizio a una stagione di distensione. Ma oggi un’intesa risulterebbe utile a entrambe le parti. All’Iran che, nonostante abbia ripreso con forza l’arricchimento delle proprie riserve di uranio dopo la rottura con Donald Trump, è piegato dal nuovo isolamento internazionale imposto da Washington. Ma anche agli Stati Uniti di Biden, che così potrebbero riavviare subito quella strategia globale che li aveva caratterizzati nel corso dell’ultima amministrazione Dem, prima dell’avvento dell’America First. Scontentando, però, alcuni alleati nell’area, Israele e Arabia Saudita su tutti.

Fino a quando non ci si siederà a un tavolo, la tensione rimarrà però alta. È ancora fresca la ferita per l’ultimo affronto subito in patria, l’omicidio dello scienziato padre del nucleare di Teheran, Mohsen Fakhrizadeh, freddato in strada nel corso di un agguato che, sospettano i vertici del governo di Hassan Rohani, è opera del Mossad israeliano, probabilmente con il sostegno del Mojahedin-e Khalq (Mek), formazione che si oppone al regime teocratico degli ayatollah.

Ma proprio l’Iran, lo storico nemico dell’area, sarà il principale campo d’azione diplomatica in Medio Oriente nel quale dovrà muoversi la nuova squadra del segretario di Stato, Anthony Blinken. Senza dimenticare gli altri teatri caldi dell’area, Afghanistan e Siria in primis, dove gli Stati Uniti devono continuare a giocare un ruolo da protagonisti, sia per la stabilità di questi Paesi che per permettere a Washington di continuare ad avere un peso nella regione e non dare troppo spazio all’avanzata di altri attori come Russia e Turchia.

Iran, necessario lavorare a un nuovo accordo sul nucleare
L’obiettivo numero uno è quello di ricostruire subito un dialogo con Teheran sulla questione del nucleare. Da quando Trump ha deciso di stracciare “il peggior accordo della storia”, come lo definì, i rapporti tra i due Paesi sono tornati ai minimi storici, con violazioni bipartisan ed azioni che hanno alzato il rischio di un’escalation militare. Da una parte, Washington ha imposto nuove sanzioni contro la Repubblica Islamica, ricacciandola nell’isolamento nel quale era rimasta fino a tutta la presidenza di Mahmud Ahmadinejad. Dall’altra, Teheran, abbandonate le speranze di un nuovo tavolo negoziale, è tornato a portare avanti il proprio programma nucleare.

Su tutti questi aspetti, se si vuol arrivare a una nuova intesa, è necessario che le parti facciano enormi passi indietro. Dalla futura amministrazione Biden nessuno si è ancora espresso, anche se l’ipotesi più accreditata è che l’ex vicepresidente voglia ripercorrere la strada intrapresa da Obama. Ma le ultime uccisioni complicano non poco le cose per entrambe le parti. Soprattutto per il governo di Teheran che, con le Presidenziali di giugno 2021 ormai alle porte, deve cercare di arginare l’avanzata dei Conservatori legati alla narrativa del “Grande Satana” e non all’approccio pragmatico di Rohani, indebolito proprio dalle azioni dell’ultima amministrazione americana che ha impedito il protrarsi della strategia della diplomazia inaugurata e portata avanti dal ministro degli Esteri, Javad Zarif.

Resta da capire come un’eventuale nuova apertura nei confronti della Repubblica degli ayatollah possa combaciare con la ritrovata armonia con il governo israeliano. Con Obama, i rapporti tra Washington e Tel Aviv avevano raggiunto uno dei livelli più bassi della storia recente proprio a causa del maggior dialogo con il governo di Hassan Rohani. Una delle principali preoccupazioni di Trump e del genero-consigliere Jared Kushner è stata invece il rafforzamento del legami con lo Stato ebraico, diventando anche mediatori dietro ai cosiddetti Accordi di Abramo con i Paesi arabi più vicini a Washington, come Emirati, Bahrein e per ultimo il Marocco, che proprio Kushner non ha esitato a definire “un’esplosione di pace” portata da Trump in Medio Oriente.

Afghanistan, il rischio di un ritiro frettoloso
L’altro fronte tornato caldo è quello dell’Afghanistan. Gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente nel Paese dopo gli attentati dell’11 settembre 2001 e da quel momento la “guerra al terrorismo” inaugurata dall’allora presidente George W. Bush non ha conosciuto fine, con 978 miliardi di dollari spesi fino ad oggi, quasi 49 miliardi all’anno, circa 157mila persone uccise, tra cui oltre 43mila civili, e più di 2.400 soldati americani caduti. Una guerra che ha portato all’uccisione di Osama bin Laden, dopo il famoso blitz nel suo nascondiglio di Abbottabad, in Pakistan, nel maggio 2011, ma che poco ha cambiato in termini di presenza di organizzazioni terroristiche nel Paese. I Taliban controllano o operano attivamente nel 70% del Paese, come mai successo dalla fine del loro governo, mentre lo Stato Islamico ha nel Khorasan la sua Wilaya (provincia) più attiva dopo la caduta del Califfato, con decine di attacchi sferrati contro civili, minoranze e forze di sicurezza locali e straniere.

Seppur non sia servito, se non per periodi brevissimi, a garantire un cessate il fuoco tra Taliban e governo di Kabul, Trump ha il merito di aver più di tutti favorito il dialogo con gli Studenti coranici, arrivando a un accordo di pace tra Washington e gli uomini dell’Amir al-Mu’minin, Hibatullah Akhundzada, e cercando di avviare i colloqui per arrivare a quello tra questi e l’esecutivo afghano guidato da Ashraf Ghani. I risultati sono stati comunque limitati: se i termini di un accordo Usa-Taliban sono stati firmati, la stessa cosa non si può dire per i dialoghi intra-afghani, con le due parti che continuano a scontrarsi sul campo.

Siria e Iraq, uscire dallo stallo e non lasciare spazio a Isis
Fronti che si sono raffreddati, almeno dal punto di vista diplomatico, sono quelli di Siria e Iraq. Dopo la scomparsa del Califfato e le azioni turche nel nord siriano, anche il processo di pace ha conosciuto un brusco rallentamento. Nei due Paesi che dal 2014 hanno assistito all’avanzata territoriale delle Bandiere Nere di Abu Bakr al-Baghdadi, la politica adottata dagli Stati Uniti di Trump è stata quella del disimpegno. Lo hanno fatto nel nord-est siriano, dove di fatto hanno lasciato campo alle ingerenze turche nelle aree a prevalenza curda, mantenendo sul campo appena 500 militari, e anche in Iraq, dove le ultime indiscrezioni giornalistiche parlano di un piano di riduzione degli operativi da 3mila a 2.500 entro fine anno.

Da un lato, però, la nuova amministrazione dovrà fare i conti con un livello di sicurezza che si è di nuovo deteriorato, con il gruppo islamista che è tornato a sferrare attacchi grazie alle sue cellule dormienti, prima in Iraq e poi anche in Siria. Dall’altro, c’è da tenere in considerazione l’impasse al tavolo dei negoziati per capire se è possibile uscire dall’attuale status quo. Il governo di Bashar al-Assad, protetto da Russia e Iran, mantiene il controllo sui suoi territori, continuando la propria offensiva nell’area di Idlib, dove sono ancora presenti sacche di resistenza, mentre la Turchia ha di fatto preso il controllo della striscia di terra lungo il proprio confine. Il 1 dicembre, a Ginevra, sono ripresi i colloqui inter-siriani mediati dall’Onu per la modifica alla costituzione del Paese. Si tratta del quarto round di incontri dopo i primi tre svoltisi nella città svizzera e in maniera virtuale a partire dall’autunno del 2019. Ma se la situazione sul campo rimanesse invariata, Gli Stati Uniti e la cosiddetta coalizione occidentale sarebbero i grandi sconfitti in una delle guerre civili più sanguinose del XXI secolo.

Twitter: @GianniRosini

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