Questa storia ci ha distrutto fisicamente ed economicamente, abbiamo passato momenti terribili”. A parlare da testimone nell’aula bunker è Rita, la mamma di Stefano Cucchi, processo a carico dei carabinieri accusati di aver depistato le indagini sulla morte del geometra, portato in caserma per droga, pestato e morto nell’ottobre del 2009 a una settimana dal suo arresto. La donna ha risposto alle domande del pm di Roma Giovanni Musarò e insieme a Giovanni Cucchi, padre di Stefano, ha rivissuto, ancora una volta, quanto accaduto undici anni fa.

“Stefano aveva dei problemi ed entrando in comunità per 4 anni ne era uscito, lavorava col padre dalla mattina alla sera e si stava ricostruendo una vita. Era tornato quello che era sempre stato da piccolo, stava benissimo. Aveva una vita davanti. Da anni non soffriva di epilessia. Mangiava di tutto, era goloso, non era anoressico, sieropositivo, tutte cose inventate e inaccettabili”, ha aggiunto la madre. Dal canto suo Giovanni Cucchi ha ricordato che l’arresto del figlio fu “una doccia fredda”. “Porto sempre con me una lettera di Stefano dell’agosto 2006 per dimostrare che mio figlio teneva alla sua famiglia e noi a lui. Ilaria ha dovuto scrivere un libro per smentire che noi lo avessimo abbandonato”, ha aggiunto. “La sera dell’arresto nessuno gli ha rivolto brutte parole – ha raccontato il padre di Cucchi -. Certo, eravamo delusi. In tribunale l’ho visto col volto sfigurato, gonfio come una zampogna e con borse sotto gli occhi. In aula Stefano mi disse ‘papà, sono stato incastrato’. Aveva la manette e buttandomi le braccia al collo mi disse ‘è finita’ e io ‘ti portiamo in comunità'”.

Pochi giorni dopo quell’incontro Stefano muore. “Quando vedemmo il suo cadavere all’istituto di Medicina legale, io che lo avevo partorito per una frazione di secondo ho fatto fatica a riconoscere mio figlio – ha spiegato la madre-. Era dentro una teca di vetro, con una marea di poliziotti intorno, coperto solo da un lenzuolo fino al collo. Solo dopo abbiamo scoperto il resto del corpo, con le fratture dietro la schiena. Era uno scheletro con gli occhi mezzi aperti, la bocca aperta. Quello non era Stefano. C’era un poliziotto che girava intorno a quella teca scuotendo la testa come a dire ‘non è possibile’. Davanti a quel corpo abbiamo giurato che verità e giustizia sarebbero uscite fuori, l’avremmo fatto per lui”.

Poco prima la deposizione dei genitori è stata conclusa la testimonianza del generale Vittorio Tomasone, all’epoca dei fatti comandante del provinciale di Roma. “Quando il 30 ottobre 2009 – ha raccontato – convocai tutti i militari che avevano avuto a che fare con Cucchi. Mi fu detto che non fu fotosegnalato per un problema tecnico ma che si andò oltre perché il ragazzo era stato già fotosegnalato in passato”. Tornando con la memoria a quei giorni, il generale ha ricordato che “all’epoca aveva un rapporto frequente, quasi giornaliero con il pm Vincenzo Barba”, titolare del fascicolo sulla morte del geometra. “Leggevo quanto scrivevano i giornali e io alla procura chiedevo se in questa storia c’entrassero o meno i carabinieri. ‘C’è qualcosa che noi dobbiamo fare?’ domandavo al pm”. Nell’udienza precedente l’alto ufficiale aveva detto che nessuno gli aveva parlato di percosse: “Mi dissero che era molto magro e con problemi di tossicodipendenza”.

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