Le elezioni non finiscono mai: ve ne sono che durano strutturalmente mesi – come le indiane, fiore all’occhiello (!) della più popolosa democrazia planetaria -; e tutte hanno strascichi di ricorsi e contestazioni, di massa o individuali. Ma se accade negli Stati Uniti, come nel 2000 e quest’anno, l’eco è enorme e la democrazia pare messa alla prova, quando, invece, la si sta esercitando.

Joe Biden è a un passo, anzi a due Stati, l’Arizona e il Nevada, dalla conquista dei 270 Grandi Elettori necessari per arrivare alla Casa Bianca. Acquisita ieri la vittoria in Michigan e Wisconsin, al candidato democratico basta vincere nei due Stati dell’Ovest, dove è in vantaggio, per raggiungere la quota fatidica, mentre si contano ancora i voti anche in Georgia, North Carolina e Pennsylvania, dov’è però in vantaggio Donald Trump, che, se sarà confermata questa geografia di vittorie e sconfitte, arriverà a 268. Limitandosi ai Grandi Elettori già assegnati, Biden è a 253 e Trump a 213.

Il distacco minimo è una beffa per il magnate presidente che, alla mezzanotte dell’Election Day, credeva di avere la vittoria in tasca, con larghi vantaggi in Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, prima che iniziasse lo spoglio dei voti per posta. Trump ha già avviato una serie di lezioni legali, per fermare la conta dei voti o innescare verifiche dei voti già contati (a seconda della sua convenienza). Il suo avvocato Rudolph Giuliani afferma: “Non consentiremo che ci rubino quest’elezione”; e non esclude un’azione legale a livello nazionale contro la presunta “corruzione” dei democratici.

Su Twitter, Trump dichiara di avere vinto Pennsylvania, North Carolina e Georgia, di cui mancano ancora i risultati ufficiali, e rivendica il Michigan, assegnato a Biden, alludendo all’ipotesi di brogli per il conteggio di “schede a sorpresa”. Twitter evidenzia il messaggio del presidente come potenzialmente fuorviante.


Biden, che come sempre cerca di pesare ed equilibrare parole e gesti, ribadisce: “Non sta a Trump decidere l’esito delle elezioni ma al popolo americano”; e sottolinea lo sforzo per garantire che “ogni voto sia contato”. “E’ chiaro – dice il democratico – che avremo 270 Grandi Elettori, ma non sono qui per dirvi che abbiamo vinto, ma solo per dirvi che quando il conteggio sarà finito penso che saremo noi i vincitori”.

Al di là delle contestazioni del magnate, il voto di martedì è stato in sé una grande manifestazione di democrazia, con un’affluenza alle urne vicina ai 160 milioni di elettori e con una partecipazione vicina al 70% degli aventi diritto, che a conti fatti potrebbe risultare la più alta di tutti i tempi, meglio del record del 1908.

Circa cento milioni di suffragi erano stati espressi in anticipo, ai seggi o per posta. Con gli oltre 69.590.000 voti già contati alle 18.00 di ieri ora della East Coast, Biden è già divenuto il candidato più votato nella storia Usa, facendo meglio del suo ex capo Barack Obama, che di voti nel 2008 ne aveva avuti 69.498.516. Trump aveva circa tre milioni di voti in meno del suo rivale, 66.707.000.

Ora, si teme possa sfociare in tensioni e disordini, come sta già accadendo a Portland e Detroit. La strategia messa a punto nello Studio Ovale, in nervose riunioni tra il presidente e i suoi più stretti consiglieri, mira a creare una narrativa e una percezione di frodi elettorali e a portare i ricorsi fino alla Corte Suprema, dove sei giudici su nove sono conservatori.

Trump insomma non ha alcuna intenzione di mollare, ma i suoi attacchi sono anche segnali d’insicurezza e nervosismo. “Se il presidente ricorre alla Corte Suprema perché si pronunci sull’esito delle elezioni, rischia una sconfitta imbarazzante”, insinua la campagna di Biden.

A caldo, la magistratura della Pennsylvania valuta giuridicamente “sbagliata” l’azione lì intrapresa. Entro l’8 dicembre, tutte le eventuali controversie sul voto dovrebbero essere concluse. Pochi giorni dopo, il 14 dicembre, deve infatti riunirsi il Collegio Elettorale, formato dai 538 Grandi Elettori cui spetta formalmente eleggere il presidente.

La speaker della Camera Nancy Pelosi, terza carica dello Stato federale, ha però ricordato che, se dovesse persistere uno stallo fino al 6 gennaio, quando il Congresso uscito dall’Election Day s’insedierà, sarà la Camera a decidere sul presidente. La Camera è rimasta in mano ai democratici – sulla ripartizione dei seggi, c’è ancora incertezza, causa riconteggi e ricorsi -, mentre al Senato è un testa a testa tra democratici e repubblicani, che dovrebbero però conservare una maggioranza sia pure risicata.

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