È una battaglia all’ultimo voto quella che si svolge in questo momento nel ballottaggio per il Senato in Georgia. I candidati sono separati da poche migliaia di voti, anche se i due democratici sembrano vicini ad ottenere una vittoria storica. Il reverendo Raphael Warnock guida infatti sulla repubblicana Kelly Loeffler con il 50,4 per cento dei consensi contro il 49,5 e la Cnn ha già “chiamato” la sua vittoria. Nell’altra sfida Jon Ossof è in vantaggio di circa 4000 voti sul repubblicano David Perdue: da scrutinare ancora parte delle schede della contea di DeKalb, una delle roccafori democratiche, e quindi la vittoria di Ossof è estremamente probabile. L’affluenza nello Stato è stata eccezionale, con oltre 4 milioni di elettori. La vittoria darebbe ai democratici il controllo del Senato, oltre che della Camera, rendendo più tranquillo e probabilmente incisivo il percorso politico di Joe Biden per i prossimi due anni (fino alle elezioni di medio termine del 2022). Per i repubblicani la sconfitta è comunque cocente. Da vent’anni il Gop non perdeva un seggio al Senato in Georgia. Il cattivo risultato si spiega con i mutamenti demografici, etnici, culturali dello Stato, ma anche con le divisioni nel partito e la campagna di delegittimazione del voto popolare condotta da Donald Trump.

È un insieme di circostanze a dare slancio alla campagna democratica. In primo luogo, appare decisiva l’altissima partecipazione al voto degli afro-americani. In alcune contee rurali a forte concentrazione di popolazione afro-americana – quelle di Calhoun, di Clay, di Macon, Randolph e Washington – i neri hanno votato in percentuali ancora maggiori rispetto al novembre scorso. E altissima è stata l’affluenza nelle contee di Fulton e DeKalb, quelle di Atlanta e della sua area metropolitana, anche qui segnate da una forte presenza di popolazione nera. Il dato è sicuramente un segnale clamoroso delle trasformazioni culturali e politiche che si sono verificate negli ultimi anni in questa parte del Sud degli Stati Uniti. L’azione di mobilitazione svolto da una miriade di gruppi – tra questi il New Georgia Project e successivamente Fair Fight, le organizzazioni guidate da Stacey Abrams – è stata fondamentale. Nel giro di due anni, Fair Fight ha registrato al voto 800mila residenti nello Stato: non solo neri ma anche asiatici e ispanici, risvegliando al tempo stesso la partecipazione tra i più giovani.

Proprio Stacey Abrams, che nel 2022 dovrebbe presentarsi come candidata per il posto di governatore, ha twittato che il risultato in Georgia è frutto del lavoro di migliaia di “organizzatori, volontari, gruppi instancabili”, che hanno contribuito a ricostruire il partito democratico nello Stato. Il simbolo più significativo di tutto ciò è sicuramente la vittoria di Raphael Warnock. Pastore della Ebenezer Baptist Church di Atlanta, la chiesa che fu di Martin Luther King Jr., Warnock sarà, se il risultato viene confermato, il primo senatore nero dello Stato della Georgia. “Lavorerò per tutti i cittadini di questo Stato”, ha dichiarato quando la sua vittoria si è profilata più chiaramente. 51 anni, Warnock in campagna elettorale ha parlato spesso della sua esperienza di nero americano nato e cresciuto al Sud. Se si ricorda che Jon Ossof, l’altro candidato democratico, ha mosso i suoi primi passi politici nell’ufficio al Congresso di John Lewis, il politico nero più amato e rispettato degli ultimi decenni, si capisce quanto il nuovo ruolo dei gruppi afro-americani abbia contato nel voto della Georgia.

Il risultato dei democratici deve essere anche spiegato con trasformazioni più ampie a livello economico, sociale, culturale. La Georgia negli ultimi vent’anni è profondamente cambiata. L’area metropolitana di Atlanta è sede di grandi multinazionali (tra le tante, Coca-Cola e Home Depot), oltre che di istituti universitari di livello, dalla University of Georgia al Georgia Institute of Technology, oltre ai tradizionali e storici colleges neri della Morehouse e della Spelman University. La Georgia si è anche affermata come il terzo Stato del Sud, dopo Texas e Virginia, per reddito medio della popolazione. Tutto ciò ha portato all’emersione della borghesia nera ma anche a una migrazione verso la Georgia di giovani, professionisti, forza lavoro specializzata. Una combinazione che ha sicuramente contato nella rinnovata forza politica ed elettorale del partito democratico, che alla fine ha presentato due candidati fino a qualche tempo fa inimmaginabili in uno Stato conservatore del Sud: e cioè un nero e un ebreo, entrambi su posizioni fortemente progressiste.

Per quanto riguarda il pessimo risultato dei repubblicani, contano sicuramente le trasformazioni cui si è appena accennato, ma contano anche le vicende delle ultime settimane, in particolare il ruolo giocato da Donald Trump. In una dichiarazione quando le cose si stavano mettendo male, il responsabile dei servizi elettorali della Georgia, Gabriel Sterling (un repubblicano), ha detto che nel caso di sconfitta per Loeffler e Perdue, “la responsabilità e il biasimo cadono interamente sulle spalle del presidente Trump”. L’opera continua di demonizzazione delle procedure elettorali, condotta da Trump dopo la sconfitta del 3 novembre, potrebbe infatti aver convinto diversi elettori repubblicani a non andare a votare. Il messaggio di Trump, in altre parole, avrebbe confuso l’elettorato repubblicano. Nelle parole del presidente, l’appello a favore di Perdue e Loeffler si è infatti intrecciato con l’insistenza su teorie cospiratorie, complotti, manipolazione del voto.

Da mettere in conto c’è anche la spaccatura profonda provocata dallo stesso Trump tra i repubblicani. Il presidente ha attaccato in tutti i modi, insultato, minacciato il governatore della Georgia, Brian Kemp, e il segretario di stato Brad Raffensperger (entrambi repubblicani), colpevoli di aver certificato la vittoria di Biden nello Stato. I candidati Loeffler e Perdue, alla fine, hanno dovuto scegliere tra i vertici del partito nel loro Stato e Trump. Hanno scelto Trump, evidenziando però le divisioni nel partito e scontentando molti tra i suoi sostenitori. Il risultato definitivo dovrebbe comunque arrivare domani intorno a mezzogiorno. Nel caso la distanza tra due candidati fosse inferiore al mezzo punto di percentuale, il perdente potrà chiedere la riconta. Non dovrebbe comunque ripetersi il caos che per oltre una settimana, alle scorse presidenziali di novembre, ha mantenuto aperto l’esito del voto tra Biden e Trump.

LA RATIFICA DEL VOTO AL CONGRESSO – Mentre la Georgia conta le schede elettorali, a Washington è prevista per oggi la riunione a Camere riunite del Congresso, per certificare in via definitiva il risultato del 3 novembre. La procedura, da sempre un atto formale, è diventata il culmine drammatico della crisi istituzionale scatenata dalle accuse sulle elezioni “rubate” da parte di Donald Trump. Il rito è fissato nei minimi dettagli. Il presidente del Senato – che è il vice presidente degli Stati Uniti, quindi Mike Pence – apre i certificati dei collegi elettorali di ciascuno Stato e in ordine alfabetico li consegna ai funzionari di Camera e Senato. Terminato il conteggio, tocca proprio al vice presidente annunciare l’esito del voto e quindi nominare ufficialmente il presidente degli Stati Uniti.

La procedura è sempre stata un atto formale perché i voti dei collegi elettorali sono già stati ufficialmente certificati dai singoli Stati. Quest’anno le cose andranno diversamente. Dodici senatori e oltre cento deputati repubblicani si preparano ad obiettare sulla legalità del voto in almeno quattro Stati: Pennsylvania, Michigan, Wisconsin e Georgia. In realtà, nelle ultime ore alcuni dei più accaniti sostenitori di Trump hanno cominciato a sfilarsi – tra questi, il senatore del Missouri Josh Hawley. Nel caso, comunque probabile, che le obiezioni ci siano, Camera e Senato si dovranno ritirare, discutere e alla fine votare a maggioranza sui casi sollevati.

Non sarà ovviamente possibile mettere davvero in discussione la vittoria di Biden. I democratici hanno la maggioranza alla Camera e molti senatori repubblicani hanno già detto che voteranno per ratificare il risultato del 3 novembre. Biden non ha quindi nulla da temere. La mossa di parte del partito repubblicano ha allora un valore soprattutto mediatico e mira a togliere legittimità all’azione futura dell’amministrazione democratica. Particolarmente difficile appare la posizione di Pence. Il vice presidente, in questi quattro anni, è stato un alleato fedele di Trump: ha appoggiato ogni sua presa di posizione e strategia, tenendosi però lontano dai toni più accesi della sua retorica. Da settimane Trump, i suoi avvocati, i consiglieri più stretti stanno facendo pressione su Pence perché si rifiuti di ratificare la vittoria democratica. Nell’ultimo comizio in Georgia, lunedì, il presidente ha detto di essere sicuro che “Mike verrà in mio soccorso”. In reaaltà, dopo un ultimo consulto con alcuni costituzionalisti, Pence ha ieri chiamato Trump e gli ha spiegato che non è nei poteri del presidente del Senato bloccare la ratifica di un voto riconosciuto legittimo dal Congresso.

Aspettiamoci comunque tensione e proteste, dentro e fuori il Congresso. Mentre deputati e senatori saranno impegnati in aula, nell’area immediatamente circostante si terrà una manifestazione cui Trump ha dato la sua benedizione ufficiale. L’evento, significativamente chiamato “Stop the Steal”, mira a riunire migliaia di persone unite nella protesta contro il presunto “furto” elettorale. Tra i gruppi che partecipano, ci sono milizie di estrema destra come “Three Percenters”, “Proud Boys” e “Oath Keepers”. L’amministrazione di Washington, per prevenire possibili disordini, ha tappezzato la città di manifesti che ricordano che girare per strada armati è severamente vietato.

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