di Carmine Abate

Sono un piccolo architetto della provincia veneta, che ha mosso i primi passi professionali cercando fin dall’inizio di fare meno danni possibili sul territorio della pianura Padana. La sensibilità alla conoscenza e la visione della conservazione verso luoghi di infinita bellezza mi hanno portato ad aderire a Italia Nostra e a farmi portavoce di tante istanze dei territori in cui lavoro e vivo.

In questi giorni tutti parliamo di sostenibilità e, ragionando sul concetto, ho scritto varie volte in maniera accidentale una parola che non esiste ma che mi suonava bene: sostifruibile. Una parola composta da sostenibile, sostituibile e fruibile tutto messo insieme. Mi è subito venuto in mente una pratica, un oggetto, un materiale composito, uno strumento dagli usi multipli; il contrario dell’usa e getta, del mordi e fuggi. Un modo per sostituire parti e comporre nuovi elementi utilizzabili più e più volte, con spirito rinnovato! Forse se impariamo a declinare in questo modo l’aggettivo “sostenibile” e il sostantivo “sostenibilità” riusciremo a ripristinarne il significato originario di questa parola, che il continuo uso improprio ha ormai svilito e snaturato.

La sostenibilità deve tenere conto delle destinazioni d’uso delle cose, della fruizione ultima da parte degli stakeholders. Da qui il concetto di sostifruibile.

Modificare un viale alberato mediante capitozzature o la radicale eliminazione delle piante per far posto a marciapiedi, piste, parcheggi non è pratica sostifruibile. In un torrente non si può installare una centralina idraulica per generare corrente, deviando e prosciugando il corso d’acqua. Un edificio del centro storico – un teatro, una chiesa come una casa in un borgo antico o addirittura una villa vincolata – non può essere diventare un negozio di abbigliamento o un supermercato.

I suoi elementi costitutivi, la morfologia e la tipologia vanno conservati e restituiti alla collettività per usi compatibili. Ecco allora l’altra parola chiave: restituzione. Il restauro ed il recupero deve mantenere e restituire alla comunità il bene culturale, affinché essa possa riutilizzarlo in modo consapevole, facendosene custode, con nuovi usi compatibili. Ecco che allora restaurare diventa pratica di cittadinanza attiva e motore di innovazione sociale e culturale. Proprio quello che ci chiede la Convenzione di Faro, appena ratificata dal nostro Parlamento.

L’Italia, e in particolare il Veneto, è piena di monumenti, centri storici e paesaggi magnifici che vanno tutelati per restituirli alle comunità che li hanno saputi realizzare e vivere. Bisogna riportare residenzialità nei centri storici (pensiamo a Venezia, ormai ridotta a 50.000 residenti), portare agricoltura di qualità nei nostri paesaggi di pregio (pensiamo ai danni prodotti dall’agricoltura industriale), pensare ad un piano per demolire l’edilizia peggiore di questi anni (pensiamo ai capannoni e allo svillettamento nelle province venete).

La mortificazione e lo snaturamento di questi importanti luoghi, trasformati in banali contenitori di beni di consumo, privi di qualsivoglia dimensione umana e sociale, realizzano solo alterazioni e profonde e manomissioni irreversibili: questa non è sostifruibile! Conoscenza e conservazione sono invece sostifruibili e già essi stessi innovazione. Questa è la sfida che ci aspetta e che deve essere alla base della pianificazione per i fondi di Next Generation EU (alias Recovery Fund).

Articolo Precedente

Il Recovery Fund per la ricerca è un bene. Ma oltre ai brevetti serve conoscere la natura

next
Articolo Successivo

Disastro ambientale in Kamchatka, nelle acque composti petroliferi e metalli: Greenpeace mostra gli animali morti sul fondale. Il video

next