Anche quest’anno il tormentone della valutazione è tornato ad agitare le acque del funzionamento della scuola, già abbastanza sconvolte per le tante ragioni che si sono accumulate al seguito del contagio.

È ormai un’abitudine che quello dei voti e dei giudizi sia diventato un tema centrale del confronto pubblico sull’educazione. Si direbbe che costituisca un’opinione comune ritenere che criteri e modi della valutazione debbano essere continuamente rivisti: in sé, assumere atteggiamenti critici sui singoli aspetti dell’attività educativa può essere segno di vitalità, ma credo che nessuno interpreti in questo modo i cambiamenti che di continuo investono un aspetto così sensibile del rapporto educativo.

Non si tratta, come invece si vorrebbe far credere, di trovare la migliore soluzione per un problema tecnico. Anzi, se questo fosse l’intento, sarebbe necessario procedure con prudenza per acquisire gli elementi di interpretazioni che possono derivare da una valutazione consapevole. Le modifiche che si succedono indicano piuttosto il contrario, e cioè che non interessa tanto capire i processi in corso, quanto sollevare un polverone che distrae da questioni di maggior spessore e per qualche tempo dà l’impressione che si stia elaborando una nuova cultura didattica, mentre le discussioni investono questioni di scarso o nessun rilievo.

Da quando, nel 1977, la legge n. 517 ha sostituito, nelle scuole dell’obbligo, le valutazioni numeriche con espressioni verbali, abbiamo visto di tutto: aggettivi, lettere, simboli, in breve un miscuglio che indicava solo concezioni confuse della valutazione. O, forse, sarebbe meglio dire che il rapido succedersi delle diverse soluzioni avrebbe dovuto essere considerato non un segnale di innovazione, ma un segnale evidente della crisi che aveva investito il sistema educativo e alla quale si tentava di sottrarsi con espedienti che dessero l’impressione di aver raccolto le nuove indicazioni derivanti dalla ricerca nel settore. Ma quale ricerca? La valutazione, come l’insieme della cultura pedagogico-didattica, si avvolgeva nei simulacri di una modernizzazione che, nei casi migliori, riprendeva modelli e procedure elaborati in contesti lontani. Non si poteva pensare che bastasse il modo di formularlo per qualificare l’espressione di un giudizio.

Sarebbe stato necessario riflettere sul ruolo, pedagogico ma anche politico, della valutazione per capire che determinate scelte, tutte – anche se con espressioni diverse – centrate su una concezione ordinale degli apprezzamenti, riflettevano la funzione che il diffondersi dell’istruzione assumeva nei rapporti fra le classi sociali. L’intento apparente era l’uniformità dell’offerta, quello reale la gerarchia dei risultati. Questa concezione arcaica è entrata progressivamente in crisi con il diminuire della funzionalità delle scuole alla conservazione delle condizioni privilegiate da parte degli allievi delle classi favorite.

La scuola da principale riferimento per l’acquisizione culturale ha gradualmente visto questa sua funzione insidiata ed erosa da altre fonti, in grado di esercitare funzioni educative più coerenti con la creazione di gerarchie sociali. Oggi gli allievi favoriti sono quelli che dispongono di offerte aggiuntive di istruzione, che possono effettuare esperienze che richiedono abbondanza di mezzi, che sono immersi in un quadro linguistico-culturale che stimola le interazioni, che hanno maggiori scambi verbali con gli adulti: ciascuno può proseguire per suo conto ad aggiungere elementi a questo quadro di privilegi. Esprimere giudizi ordinali su questa base non ha senso: e, in effetti, nelle proposte che si susseguono, compresa l’ultima che mescola formulazioni diverse nel corso dell’anno scolastico (fondate comunque sulla medesima logica), sarebbe ormai difficile associare le soluzioni valutative a progetti educativi elaborati autonomamente e volti a conseguire intenti di equità sociale.

Una ripresa dell’educazione scolastica richiede che si definiscano le condizioni in cui avvengono i processi e gli intenti che si perseguono. Per quanto possa sembrare paradossale, ha ancora senso sviluppare un’attività valutativa se gli apporti educativi provengono in maggior misura dall’esterno della scuola? Per esempio, sappiamo quanto grandi siano le differenze nelle competenze verbali dei bambini: sono differenze delle quali la scuola reca una responsabilità molto limitata, perché hanno origine in esperienze compiute nell’ambito famigliare e sociale. Da ricerche condotte in Francia e negli Stati Uniti è emerso che l’esposizione verbale dei bambini nei primi tre anni di vita varia nell’ordine di uno a 100: è a questi elementi appresi all’esterno della scuola che occorre riferire i progressi nello sviluppo cognitivo che si realizza al suo interno. La valutazione potrebbe fornire il contributo di conoscenza di cui c’è bisogno per sostenere lo sviluppo individuale e collettivo degli allievi.

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