È vero, dietro a The Book of Vision di Carlo S. Hintermann c’è un signore che porta il nome di Terrence Malick. Ma è tanta e tale la personalità del giovane cineasta romano che il pur geniale collega americano, da sempre in absentia, tende a scomparire per lasciar lo spazio al discepolo, se così possiamo denominarlo. Che fosse talentuoso, infatti, era chiaro già dai tempi del doc The Dark Side of The Sun del 2011, ma con il suo esordio nella finzione Hintermann raggiunge un’ambizione di visionarietà e complessità che ne confermano la cifra distintiva. Al punto che, in un mondo parallelo, sarebbe bello chiedere al suo produttore esecutivo, appunto Malick, cosa pensi di Hintermann, capace di cogliere la sua “eredità” nella quintessenza del fare cinema e restituirla in profondità.

Fatte le dovute premesse, l’opera è stata selezionata per aprire la Settimana Internazionale della Critica fuori concorso ed è uno di quei (meta)testi che il grande schermo esaltano e impreziosiscono più di altri. Come per l’autore texano, il modus narrandi di Hintermann traduce una visione di mondo distante dagli schemi classici e assai prossima a quell’idea di (inter)testualità in costante desiderio di reinventarsi. La storia parte da lontano, reminiscenza di uno studio universitario legato all’antropologia della storica della medicina Barbara Duden: “Vi si affrontava il tema del corpo della donna quale luogo pubblico su cui chiunque era autorizzato a elaborare un discorso prescindendo dalla legittima proprietaria. A tal proposito veniva richiamato un medico del ‘700 che predicava l’importanza del racconto del corpo da parte del paziente, un corpo che non si poteva toccare – non si poteva attraversare il confine della pelle, si predicava. Da quel punto sono partito tentando un passo in avanti, cioè verso la riappropriazione del proprio corpo da parte della donna, una riappropriazione che passa anche attraverso la malattia che certamente è una privazione ma in quanto tale, diventa una opportunità”.

Al centro del racconto infatti è Eva, una giovane donna, una ricercatrice in Medicina di alte potenzialità, che improvvisamente molla tutto e si rivolge alla ricerca della medicina del ‘700, sulle tracce di un medico prussiano, Johan Anmuth, al quale vuole rivolgersi seppur nella mediazione dei libri e del Tempo, per dare un senso al delicato momento della propria vita, che la vede incinta ma anche malata. The Book of Vision contiene questa storia mentre ne apre ad altre, intrecciando spazi e tempi come solo un certo uso del mezzo cinematografico riesce a fare. Ed è proprio per questa capacità del cinema di viaggiare nel tempo spezzando il legame razionalista causa/effetto, ovvero interrompendo le regole classiche, che Hintermann ha scelto di avvicinarsi alla Settima arte. “Il lavoro sul tempo per me rappresenta la grande chance del cinema contemporaneo, far vivere “concretamente” i fantasmi, inventare mondi paralleli eppure su temporalità distinte” spiega il cineasta. Così accade che Eva viaggia nel passato, riverbera nei panni di un’altra donna già paziente di Johan, procede e retrocede con flussi di coscienza eterna così come quella “monade filosofica” di Malick ha evidentemente veicolato nella formazione artistica di Hintermann. “Malick, come altri inventori di linguaggi, lasciano tracce nell’inconscio come su dei guanti. Ma i film eccedono sempre le intenzioni degli autori, il linguaggio germina, i testi sono come esseri viventi, si muovono. Per questo io prendo sempre le difese del cinema anche quando non si sa chi ci sia dietro”. Se nei panni di Eva, Carlo ha scelto l’attrice olandese Lotte Verbeek, in quelli di Johan ha voluto il gigantesco interprete inglese Charles Dance, noto al grande pubblico come Lord Lannister ne Il trono di spade. “Charles ha una forza enunciativa nella pronuncia delle parole di puro inglese che sfiora l’assoluto: per questo gli ho affidato il medico-filosofo, colui che detiene il logos creativo e fondativo del film”.

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