Trafitti, issati sulle barche con violenza, afferrati dagli occhi e dilaniati con un coltello per permettere l’estrazione degli uncini degli arpioni che sono conficcati nei loro corpi. Tutto mentre sono ancora coscienti. È questo il trattamento riservato ai pesci catturati con l’arpione, un attrezzo utilizzato per la pesca del pesce spada con le tradizionali barche, dette anche “feluche”, tipiche della zona dello Stretto di Messina.

Lo scorso agosto, un investigatore di Essere Animali è riuscito a imbarcarsi a bordo di una feluca, documentando con telecamere nascoste tutte le fasi della cattura di un pesce spada a largo di Scilla (Rc) e la sua lenta agonia.

Il pesce spada è uno dei pesci più amati dagli italiani: è la quinta specie più consumata dopo le orate, il merluzzo nordico, il salmone e le spigole. L’Italia è anche uno dei mercati di destinazione più importanti per il pesce spada nell’Unione Europea: nel 2017 ne abbiamo importato 21.741 tonnellate soprattutto da Spagna, Portogallo e Cina (dati Eumofa).

Per quanto riguarda la produzione nazionale invece, secondo l’Istat, nel 2017 sono state catturate 2.625 tonnellate di pesce spada, di cui circa il 70% proviene dai litorali siciliani. La maggior parte del pesce spada catturato in acque italiane viene recuperato tramite i palangari, attrezzi costituiti da una lunga lenza che permette il posizionamento di centinaia di ami e che possono essere calati in prossimità del fondale, oppure a mezz’acqua. Nell’ultimo caso, se forniti di grossi ami, possono essere impiegati per la cattura di grandi pesci come appunto il pesce spada, ma anche il tonno rosso e quello alalunga.

Meno facile da rintracciare è l’utilizzo delle spadare, reti derivanti di dimensioni molto ampie il cui utilizzo è vietato da circa venti anni a causa della loro scarsa selettività che determina la morte di cetacei e tartarughe marine. Secondo le stime della Fao, oltre il 40% del pesce commercializzato in Europa è frutto di Iuuf (illegal, unreported, unregulated fishing). Le migliori stime disponibili oggi ci parlano di oltre 54.000 tra squali, uccelli, mammiferi marini e tartarughe che ogni giorno finisco catturati nei sistemi di pesca, legali e non. Per un totale di circa 20 milioni l’anno di creature marine morte “accidentalmente”.

A questo proposito, in molti ricorderanno la notizia di qualche settimana fa del capodoglio Furia impigliato nelle reti da pesca a largo delle isole Eolie, che dimostra come queste reti, seppur vietate, vengano ancora utilizzate da alcuni pescatori. A differenza delle spadare o dei palangari, la pesca con l’arpione ‒ così come la pesca artigianale in generale ‒ viene considerata sostenibile per l’ecosistema marino.

I dati che riguardano i volumi delle catture provenienti dalla pesca con l’arpione non sono facilmente reperibili, perché gran parte del pescato viene venduto a ristoranti e pescherie locali. Sappiamo però che nel periodo di maggiore attività, da inizio maggio a fine giugno, una feluca può pescare fino a dieci pesci spada al giorno.

Nonostante si tratti di numeri limitati, ciò che la nostra indagine mostra palesemente che questo tipo di pesca causa gravi sofferenze ai pesci spada ‒ che peraltro nel Mediterraneo vengono considerati quasi a rischio di estinzione. Come tutti i pesci, anche loro possiedono i requisiti anatomici e fisiologici necessari per sentire dolore e provare paura. Perciò, seppur sostenibile, questo tipo di pesca non è libera da crudeltà.

Quella dei pesci è una sofferenza silenziosa, ma non per questo giustificabile. Le alternative cruelty-free esistono, perché non provare a cambiare?

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