“L’identità liberale di Forza Italia si è indebolita. Tant’è che dentro il partito ormai si agitano due pulsioni contrapposte, una di chi è convinto che ci si debba spingere a sostenere il governo dove ci sono i 5 stelle, l’altra attratta inesorabilmente dalla Lega“. La pulsione di Enrico Costa, invece, sta da un’altra parte. Tanto da spingerlo a cambiare ancora una volta casacca. Eterno centrista, di professione avvocato, nel 2008 è stato relatore in Parlamento del lodo Alfano, pensato per mettere al riparo Berlusconi dai processi e poi bocciato dalla Consulta. Ex ministro dei governi Renzi e Gentiloni in quota Ncd, vero conservatore su diritti e famiglia, ha trascorso gran parte della sua vita politica sotto l’ala del fondatore di Forza Italia. Ma ora ha deciso (di nuovo) di abbandonare il partito dove era rientrato nell’aprile 2018. La prossima destinazione è Azione di Carlo Calenda e Matteo Richetti – in cui è pronto a fare il grande salto anche l’ex M5s Nunzio Angiola – definito in conferenza stampa una “coraggiosa novità liberale“.

Nel corso dell’evento organizzato a Montecitorio alla presenza del nuovo leader, Costa rispolvera i cavalli di battaglia della sua esperienza politica, iniziata nel 1990 al consiglio comunale di Villanova di Mondovì, consolidata nel 2005 al suo arrivo in Regione Piemonte ed esplosa nel 2006 con l’elezione in Parlamento nelle liste di Forza Italia. È fondamentale che la giustizia sia giusta, che un processo abbia un capo e una coda. Ci vogliono certezza della pena e una sentenza dopo un processo giusto”, spiega il deputato, che nel partito di Calenda vestirà i panni di Responsabile giustizia, proprio come durante i tempi d’oro dell’epoca berlusconiana. “Oggi ci sono tanti sedicenti liberali. Ma sono liberi o subalterni ad altre forze? Noi vogliamo essere liberali liberi”. In un’intervista a Repubblica fa sapere di aver già parlato della sua decisione sia con B. che con il suo mentore Niccolò Ghedini. E aggiunge: “Sono convinto che oggi ci sia spazio per una forza liberale consistente, capace di combattere su temi storici, come la difesa della proprietà e della giustizia su cui in questi anni ho fatto tante battaglie“.

In effetti, nel corso della sua carriera fra i corridoi dei palazzi romani, preceduta in famiglia da quella del padre (ex ministro e deputato per trent’anni), Enrico Costa è sempre stato in prima linea quando si parlava di giustizia. L’exploit arriva nel 2008, quando è relatore della legge 124/2008, cioè del famoso lodo Alfano, proprio mentre Berlusconi è a processo per il caso Mediaset (verrà poi condannato a 4 anni per evasione fiscale in via definitiva dalla Cassazione nel 2013). “Non è un’immunità, perché differisce semplicemente un po’ più in la’ nel tempo i processi che verranno comunque celebrati”. La Corte costituzionale, interpellata dalla procura di Milano, la pensa diversamente. E boccia l’intero provvedimento, perché la sospensione dei processi penali per le quattro più alte cariche dello Stato “crea un’evidente disparità di trattamento” tra i cittadini e non è prevista in alcun modo dalla Costituzione.

Nel 2009, invece, in qualità di capogruppo di Forza Italia in commissione Giustizia a Montecitorio, Costa presenta un disegno di legge sul legittimo impedimento, definendolo una “priorità per la maggioranza”. A suo parere, si tratta di un “ponte verso riforme costituzionali che regolino i rapporti tra magistratura e politica”, anziché “un’immunità” per i membri del governo. La legge viene approvata nel 2010, ma nello stesso anno si incaglia nell’eccezione di incostituzionalità sollevata sempre dai giudici di Milano nell’ambito del processo Mills. L’anno dopo la Consulta ne boccia una parte, mentre a cancellarla del tutto ci pensano i cittadini con il referendum del 2011. Nelle mani di Costa passano poi i dossier sul processo breve, la stretta sulle intercettazioni, il tentativo di inasprire le sanzioni per diffamazione e pure l’emendamento (poi naufragato) per abbassare ancora i termini della prescrizione della ex Cirielli.

Proprio la prescrizione, in chiave garantista, è un tema che ritorna spesso nelle avventure politiche del deputato piemontese (ultima in ordine di tempo la legge contro la riforma Bonafede apprezzata anche dai renziani). Insieme agli attacchi “a chi usa i tribunali per fini politici” e alle posizioni conservatrici in fatto di diritti. Dopo aver lasciato nel 2013 il Popolo della libertà per entrare nel Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, l’anno seguente diventa viceministro alla Giustizia del governo Renzi, un esecutivo sostenuto da un drappello di transfughi azzurri oltre che dal Pd e dai centristi. Quando viene nominato ministro degli Affari regionali, rivendica il successo del suo partito nell’aver bloccato la stepchild adoption nella legge sulle unioni civili. E tuona contro i magistrati di fronte all’ipotesi che possano utilizzare una “giurisprudenza creativa” per permettere ciò che il Parlamento ha esplicitamente vietato. Nel 2016 viene poi riconfermato ministro, quando a Palazzo Chigi il leader di Rignano si dimette dopo la sconfitta al referendum e passa la palla a Paolo Gentiloni. Ma la nuova esperienza ha vita breve. Il 19 luglio 2017 Costa si dimette dall’incarico e in una lettera al Presidente del Consiglio spiega: “Rinuncio al ruolo e mi tengo il pensiero“, riferendosi al suo dissenso per la legge sullo ius soli in cantiere a palazzo Chigi. In più interviste alla stampa aggiunge di non poter più “tenere i piedi in due scarpe”, proprio mentre le sirene del centrodestra tornano a suonare per tanti ex azzurri in vista delle imminenti elezioni. In quell’occasione su Silvio Berlusconi e Matteo Renzi dice: “Ho lavorato con entrambi e posso testimoniare che con loro si lavora benissimo. A volte i confini delle appartenenze dividono delle persone che sono fatte per stare dalla stessa parte“.

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