di Claudio Gianotti

In un anno tagliamo più alberi di quanti ne crescano, peschiamo più pesci di quanti ne nascano, produciamo più rifiuti di quanti riescano a essere smaltiti. Sono molti i processi naturali che sono sfruttati di più di quanto i cicli biologici riescano a rinnovare. Dal 2013 il Global footprint network monitora molti di questi parametri e ha sviluppato un indicatore per dare la misura di quanto le risorse naturali siano sovrasfruttate: l’Earth Overshoot Day, il giorno del debito con la Terra.

Immaginate di ricevere tutto lo stipendio di un anno il primo gennaio. Dovete pianificare le vostre spese per far sì che basti per 365 giorni, altrimenti dovrete ricorrere ai vostri risparmi. Ecco, l’Italia vive talmente al di sopra delle proprie possibilità ecologiche che idealmente consuma tutto il suo stipendio annuale il 14 maggio e il resto dell’anno vive di risparmi propri e altrui. Infatti esistono alcuni Stati, come il Burkina Faso, che non usano tutto il budget annuale. Ma sono molti di più gli Stati in deficit. L’umanità presa complessivamente consuma tutte le risorse annuali entro il 29 luglio. Ci vorrebbero 1,7 pianeti per saziare l’avidità di risorse dell’uomo.

Non è sempre stato così. Negli anni Settanta vivevamo ancora in equilibrio con il sistema Terra. Sono molte le critiche al sistema consumista in quanto tale, ma uno dei meriti dell’approccio del Global Footprint Network è di non entrare nel merito, nella filosofia. Non stiamo giudicando l’opportunità di continuare con il nostro modello economico ma se esso sia possibile.

La risposta è no. La Terra, per quanto enorme, ha una grandezza finita e dei limiti. Una dottrina come l’economia capitalistica che necessita di una crescita infinita (o meglio di un incremento della crescita infinito) non è compatibile con la fisica planetaria. Il mantra a reti unificate della crescita a ogni costo si scontra con il limite invalicabile delle grandezze fisiche.

Un concetto così semplice è ignorato perché troppo difficile da accettare. Il livello dei consumi non è compatibile con l’attuale popolazione. O si riducono i consumi o diminuisce la popolazione, non c’è via di scampo. L’unica variante possibile è il progresso tecnologico, ma non facciamoci illusioni, esiste la legge dei ritorni decrescenti: migliorare l’efficienza di un processo all’inizio costa poco e dà grossi risultati; mano a mano, costa sempre di più e si ottengono dei ricavi sempre minori.

Fin qui non sembra esserci scampo da un destino di miseria. Ma dobbiamo fare un passo in più e affermare con forza che i consumi e il benessere non sono la stessa cosa e a maggior ragione non lo sono i consumi e la felicità. Esistono molteplici modelli economici che lo dimostrano. “L’economia della ciambella” di Kate Raworth, ad esempio, tiene in considerazione i vincoli fisici pur rispettando il benessere umano, mentre Tim Jackson propone un modello di “Prosperità senza crescita”.

Cambiare modello non è una scelta, è una necessità e le indicazioni su come farlo sono molte. La dieta ad esempio ha un’impronta pesantissima sul pianeta (quanto il trasporto). Solo il 3% di tutte le terre adibite a scopo agricolo produce vegetali a diretto consumo umano, contro il 70% destinate a mangime per gli allevamenti. Una decisa virata verso una dieta vegetariana o vegana alleggerirebbe il nostro peso sul pianeta in modo significativo.

Oppure come non citare il consumo di suolo, che rappresenta una piaga senza pari che prende la forma di deforestazione per i Paesi in via di sviluppo e di cementificazione per i Paesi ricchi. In ogni modo, significa perdita o riduzione della capacità vitale di un territorio e maggiore vulnerabilità a frane e alluvioni. Come se non bastasse, l’opinione pubblica è sempre più insensibile al tema: cercando su Google Trends vediamo come l’interesse per questo tema è molto calato rispetto ad alcuni anni fa.

Infine bisogna riconsiderare il modo di intendere il trasporto individuale, altro fardello ingombrante per la Terra. Spostare due tonnellate d’acciaio per muovere 70 kg di essere umano è stupido oltre che poco ecologico. E la soluzione non è il greenwashing proposto da Tesla, ma è concepire il trasporto come servizio invece che come proprietà. O ridurre la necessità di spostamento. In tempi di Coronavirus abbiamo sperimentato il telelavoro, perché tornare indietro?

Flygskam. Ogni viaggio aereo chiede un prezzo ambientale enorme. Così alto che in Svezia esiste la parola per indicare il senso di colpa ecologico per volare, flygskam per l’appunto. Non possiamo prendere decisioni basate sul senso di colpa, ma cambiare atteggiamento e sentirsi un po’ più responsabili del mondo che ci circonda gioverebbe a tutti.

Oggi è il giorno in cui iniziamo a essere in debito con il pianeta ed è un monito che ci spinge a cambiare paradigma. Il Covid-19 lascerà pesanti cicatrici nel tessuto produttivo e investimenti senza precedenti verranno erogati per tornare “alla normalità”. Sarebbe il momento giusto per chiedersi se vogliamo farlo.

Articolo Successivo

Coronavirus, uno shock per l’energia: ora bisogna puntare su efficienza e sostenibilità

next