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Mezzojuso, la storia delle sorelle Napoli non mi ha colpito subito. Poi ho dato ragione al loro coraggio

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La storia delle sorelle Napoli non mi ha colpito subito. Mi sembrava di assistere, ascoltandole a Non è l’Arena da Massimo Giletti, quasi a una commedia, a tratti grottesca. Mi sono sbagliata perché tanti sono i messaggi positivi che si possono cogliere in questa storia e il tempo, devo ammetterlo, ha dato ragione al loro coraggio.

Ina, Anna e Irene Napoli hanno dimostrato che le donne sono quelle che per prime possono ribellarsi alla mafia. Loro tre hanno agito innanzitutto per salvare le loro terre: ma il loro gesto è andato molto oltre, è stato utile all’intera comunità. Perché hanno dimostrato con i fatti che si può dire di no alla mafia, alimentata dal silenzio e dalla compiacenza di molti che si girano dall’altra parte pur di non avere “problemi”.

Il comune di Mezzojuso, dove le sorelle Napoli risiedono, è stato sciolto per infiltrazione mafiosa, a dimostrazione del fatto che le loro denunce – anche quelle contro il primo cittadino indifferente – erano serie. Merito anche, forse soprattutto in questo caso, della tv. Il fatto che dal 2017 a oggi Giletti abbia deciso di non spegnere i riflettori, di stare vicino a queste tre donne, ha certamente dato loro il coraggio di proseguire nell’affermazione della verità.

Quello che purtroppo emerge da questa vicenda è la fotografia di una regione ancora troppo succube della criminalità organizzata. Ci sono delle realtà, come quella di Mezzojuso, che hanno fortemente bisogno di essere raccontate, di uscire dall’isolamento, di essere trattate come emergenze a livello nazionale.

La storia delle sorelle Napoli non è solo una storia di coraggio incredibile, tanto da non essere percepito subito, ma di impegno, legalità, rispetto per la propria terra e per le proprie radici. Tante sono state le minacce, le umiliazioni, i danni che hanno dovuto subire in questi anni per aver detto no alla mafia nell’ex feudo di Bernardo Provenzano; ma alla prevaricazione mafiosa hanno riposto con la determinazione: “Non avranno mai le nostre terre!”.

All’inizio, siccome erano sole e donne, qualcuno ha anche cercato di far finta di dare buoni consigli, pur di non lasciarle in pace, come se da sole non potessero svolgere il loro lavoro, quello che gli è stato lasciato in eredità dalla famiglia. E nonostante le difficoltà economiche, sono rimaste in quella montagna che oggi è diventata il simbolo delle donne libere.

Anche in Calabria, a Limbadi, la difesa della propria terra è diventata un motivo di scontro che ha portato alla morte, nell’aprile del 2018, del povero 43enne Matteo Vinci, e del ferimento dell’anziano padre. Ma la madre di Matteo, Rosaria Scarpulla, ha fatto nomi e cognomi di chi da anni li minacciava per la terra, ha rischiato e rischia la vita pur di non darla vinta a chi vive in un mondo di minacce e prevaricazione. Non ha mai abbassato la testa e non si è mai allontanata dalla sua città.

Quello che lascia l’amaro in bocca in questi casi è la reazione della gente indifferente, assuefatta, distratta, come nel caso delle sorelle Napoli. Abbiamo visto un paese interno girarsi dall’altra parte. Per loro mi viene in mente una frase di Leonardo Sciascia: “Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l’appenda da sé, del colore che piace, alle proprie corna”. Vogliamo ancora avere padroni o scegliere il nostro futuro?

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