Dopo vari rimpalli giudiziari la Cassazione si è espressa con un no finale sulla possibilità, per alcuni genitori, di dare ai propri figli il cibo portato da casa anziché farli mangiare alla mensa scolastica. Fermo restando che il dibattito mi appassiona tanto quanto una partita di cricket o una puntata di Temptation Island, credo che questo moto insurrezionale, un po’ socio e molto salutista, doveva essere smorzato sul nascere.

La scuola è, e deve rimanere, un organo supremo alle cui regole – siano esse sui programmi ministeriali, su come vestirsi, sugli orari e in generale sulla convivialità – si debba sottostare. Fermo restando che, in quanto Autorità, debba garantire la massima qualità educativa, il rispetto dei diritti e dei credi di tutti, e ovviamente il miglior cibo possibile.

Consentire di potersi portare il cibo da casa, come in un Parco Sempione qualsiasi, esula da quelle regole di comunità che sono insite nell’idea stessa di scuola. Non è un caso che l’insubordinazione refettoria arrivi in un’epoca in cui i genitori sono iper-presenti nella vita dei figli. E se è vero che tra le ragioni della ribellione c’è il caromensa – la scuola non dovrebbe mai essere elitaria – ho il sospetto che quello sia un aspetto minoritario rispetto alla crescente diffidenza di molti, troppi genitori, nei confronti dei servizi offerti dalla scuola, tra cui quello mensa.

Attraverso le chat di gruppo si crea un tamtam mediatico, quasi schizofrenico, dove si può perdere il sonno disquisendo fino a tarda ora se la Commissione Mensa dovrebbe proporre la pasta al kamut o al farro trafilato al bronzo.

Nel momento in cui entri nella dimensione delle chat dei genitori, entri in una realtà parallela in cui ti ritrovi al cospetto di professori di Harvard, pedagoghi, nutrizionisti dell’ultima ora, che parlano senza la minima cognizione di causa, pensando di essere i nuovi Montessori. L’assurdità di certe loro istanze, anziché autodistruggersi come le Stories su Instagram, resta ai posteri e anzi, crea un effetto tsunami che scorrendo sottoterra diventa sempre più potente.

Vedo genitori lamentarsi della qualità della mensa (conoscono a memoria il menù di ogni settimana), salvo poi inserire confezioni maxi di patatine come alimento del pasto, allungare Maxibon poco prima di cena, comprare litri di bevande gassate e zuccherate. Uno dei cavalli di battaglia di molti genitori mensa-scettici è che, a loro detta, i bambini a scuola non mangiano niente. Non sarà che, abituati alle schifezze di casa, storcano il naso davanti a un piatto di minestrone o verdure cotte mai viste prima?

I miei figli mi hanno sempre detto cheil momento più bello della scuola è mangiare in mensa. E ci credo, è come andare nel tuo ristorante preferito con i tuoi migliori amici.
E’ un intermezzo fantastico in cui possono possono levarsi, anche se per poco tempo, dalle grinfie degli insegnanti ed esplorare territori nuovi, sociali e comportamentali.

Il senso della scuola sta anche in questo, non solo insegnare, ma educare alla condivisione, allo stare insieme in contesti diversi. E trattare tutti (precetti religiosi, allergici e intolleranze esclusi) allo stesso modo. Oggi c’è il minestrone. Bene: posso amarlo, posso odiarlo, ma quel piatto che mi ritroverò davanti sarà lo stesso del mio vicino di tavolo.

Il concetto di parità non potrebbe essere garantito ugualmente con il cibo portato da casa. Non è solo assurdo costringere il bambino ad essere visto come compagno altro, quello col barattolino Tupperware (per quelli più chic, ça va sans dire), lo è anche pensare che tra quella costola che si stacca dal gruppo non tutti avranno le stesse prelibatezze. Un panino a fette del Mulino Bianco, magari anche un po’ secco (praticamente il panino che mi preparava mia mamma in tutte le gite, quello in cui rischi di strozzarti), con dentro due fette di prosciutto cotto in vaschetta, è diverso da una focaccia bisunta con prosciutto crudo e mozzarella, e così via.

La scuola e lo Stato hanno il dovere di vigilare e mantenere l’asticella puntata verso l’alto, quando si parla di qualità, e verso il basso per garantire a tutti il diritto di scelta. Ma in un mondo in cui si è praticamente narcotizzati dai programmi Tv di cucina, seguire il buon senso può essere complicato.

Non posso fare a meno di pensare che se andassimo a chiedere direttamente ai bambini oggetto di questa contesa, la maggior parte di loro sceglierebbe tutta la vita di mangiare in mensa insieme ai loro compagni. E pazienza se il cibo cucinato per loro non venga direttamente dalla Francescana di Bottura.

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No al panino da casa, il principio è giusto. Ma la Cassazione ha mai visto le mense scolastiche?

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