L’Italia continua a pagare per i suoi ritardi. E rischia di sborsare sempre di più. Ai quasi quattro miliardi spesi in vent’anni (e pagati in bolletta) perché i reattori rimanessero dove erano, si aggiungono non solo i ritardi nell’iter per la realizzazione del deposito nazionale, ma anche quelli per la messa in sicurezza dei siti già esistenti. Dopo che la Corte di giustizia Ue ha accolto il ricorso della Commissione europea contro l’Italia per non aver ancora comunicato, a 4 anni dal termine previsto, il programma nazionale definitivo per la gestione del combustibile nucleare esaurito e dei rifiuti radioattivi, il sottosegretario leghista Vannia Gava ha spiegato, davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, che tuttora mancano decreti ministeriali e interministeriali attesi da decenni. Tra le ragioni che hanno bloccato fin qui l’adozione del programma c’è il ritardo nella pubblicazione della Cnapi, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee a ospitare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi. Un documento tuttora top secret, che fornirà la base per avviare il lungo e complesso percorso di confronto con le comunità locali sulla scelta del sito più idoneo.

LA BOZZA DI RISOLUZIONE DEPOSITATA IN SENATO – Ma i tempi per la realizzazione del deposito non sono l’unico problema. Lo spiega Gianni Girotto, portavoce a Palazzo Madama del Movimento 5 Stelle, nella bozza di risoluzione conclusiva dell’indagine in tema di rifiuti nucleari depositata di recente in Commissione Industria al Senato, da lui stesso presieduta. “Il tema reale sul quale è necessario porre attenzione e urgenza – spiega Girotto a ilfattoquotidiano.it – riguarda i ritardi delle attività di messa in sicurezza e di smantellamento che pongono rischi sulla salute dei cittadini e un continuo aumento dei costi”. Questo significa che “finché non si avanzi con queste due attività, il deposito nazionale è necessario, ma non urgente”.

ACCOLTO IL RICORSO CONTRO L’ITALIA – Nel frattempo, però, i ritardi accumulati nella pubblicazione della Cnapi hanno portato la Corte di giustizia Ue, l’11 luglio scorso, ad accogliere il ricorso della Commissione europea contro l’Italia. Tutto parte da una procedura di infrazione aperta ad aprile 2016 dalla Commissione contro Italia, Austria e Croazia, che avevano trasmesso solo le bozze dei loro programmi, e non quelli definitivi, entro il termine del 23 agosto 2015, come previsto dalla direttiva 2011/70/Euratom del 2011. In seguito a un parere motivato inviato dall’Italia a Bruxelles, la Commissione aveva fissato un nuovo termine a luglio 2017, anche questo non rispettato. Da qui la decisione della Corte, che per il momento non prevede sanzioni pecuniarie. Questo potrebbe accadere presto, in caso la Commissione europea deferisse ancora l’Italia.

I RITARDI SULLA CNAPI – Nel frattempo, il 16 luglio scorso, davanti alla Commissione Ecomafie, il sottosegretario al Ministero dell’Ambiente Vannia Gava ha spiegato che la Cnapi non è ancora stata pubblicata perché si attende un aggiornamento da parte dell’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione (Isin) rispetto alla sismicità delle aree. Uno studio chiesto nel 2015 alla Sogin, la società pubblica responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi, i cui costi sono coperti dalla bolletta elettrica. E dal 2001 al 2018, dei 3,7 miliardi di euro pagati dai consumatori, solo 700 milioni sono stati spesi nello smantellamento (il resto in costi di gestione e per far trattare il combustibile radioattivo in Francia e nel Regno Unito). Sarà la Sogin, tra l’altro alle prese con un imminente rinnovo del cda, a costruire il deposito.

IL CRONOPROGRAMMA – “So che lo studio è in mano all’Isin – ha dichiarato l’esponente del Carroccio – e dovrebbe essere completato a breve”, per poi arrivare sulle scrivanie dei ministeri dello Sviluppo economico e dell’Ambiente, a cui spetterà il compito di pubblicare la Cnapi e scegliere il sito definitivo, attraverso una trattativa con le comunità locali. Il futuro deposito nazionale delle scorie nucleari dovrebbe iniziare a funzionare a partire dal 2025, mentre l’avvio dei lavori è previsto per il 2021. Almeno sulla carta, perché dalla pubblicazione della Cnapi, la legge prevede 44 mesi per arrivare all’inizio della costruzione del sito. Il dibattito pubblico dovrebbe iniziare quanto prima, per rientrare nei tempi dettati dal cronoprogramma.

LA STRADA DEGLI ACCORDI CON ALTRI PAESI – Ma non è l’unico nodo da sciogliere, come si sottolinea nello schema di risoluzione depositato da Gianni Girotto. Nel documento si chiede al governo “di verificare prioritariamente la fattibilità di accordi bilaterali” con altri Paesi, che diano la disponibilità a utilizzare i loro impianti per smaltire i rifiuti radioattivi italiani di medio alta e alta attività”. Le scorie più radioattive, in questo modo, non finirebbero nel deposito nazionale. “Riteniamo opportuno – spiega Girotto a ilfattoquotidiano.it – chiedere al Governo di verificare ‘la fattibilità’ per allontanare l’alta attività, per la quale al mondo attualmente non esiste ancora un deposito definitivo, le cui difficoltà e costi quindi potrebbero vieppiù giustificare una soluzione multinazionale. Vedremo in seguito alla verifica – continua – se ci saranno, come pensiamo, gli elementi per procedere verso questa direzione e con quale forma”. D’altro canto, sulla questione delle scorie di alta attività c’è un’incongruenza tra i due documenti che tracciano la strada per la costituzione del deposito nazionale, il decreto legislativo 31 del 2010 e la Guida tecnica dell’Ispra.

IL NODO DEI RIFIUTI AD ALTA ATTIVITÀ – Il primo stabilisce che il deposito nazionale debba essere costituito da due parti, poste sul medesimo sito all’interno di un ‘parco tecnologico’: un impianto per lo smaltimento dei rifiuti a bassa e media attività e un altro per il deposito temporaneo di lungo periodo (50-100 anni) dei rifiuti ad alta attività e del combustibile irraggiato non riprocessato. Eppure la Guida tecnica numero 29 dell’Ispra indica i criteri di localizzazione solo per il deposito di smaltimento dei rifiuti a bassa e media attività. “L’attuale impianto regolatorio per la realizzazione del deposito nazionale – spiega, inoltre, il documento firmato da Girotto – è quello configurato da un Governo che aveva deciso di costruire nuove centrali nucleari”. Il deposito, quindi, era stato pensato per contenere molti più rifiuti di quelli che l’Italia oggi produce “e per svolgere attività come quelle individuate nel parco tecnologico, pensato allora come un centro di ricerca nucleare sul trattamento del combustibile e dei rifiuti radioattivi”.

L’IPOTESI ALTERNATIVA – Nella bozza di risoluzione si ricorda, inoltre, la richiesta – già contenuta nel parere di compatibilità ambientale sulla proposta di programma – di integrare l’analisi con la strategia del ‘brown field’, ossia la trasformazione degli attuali siti in depositi di sé stessi, rispetto alla realizzazione di quello nazionale. Sembra così delinearsi anche l’ipotesi che le scorie rimangano dove sono, ossia nelle quattro ex centrali nucleari di Trino (Vercelli), Caorso (Piacenza), Latina e Garigliano (Caserta) e negli impianti del combustibile di Saluggia (Vercelli), Bosco Marengo (Alessandria), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera).

IL RUOLO DELLA SOGIN – I dubbi sul futuro della decommissioning sono legati, inevitabilmente, anche alle inadempienze nella gestione in Italia dei rifiuti radioattivi, oggi affidata alla Sogin. La stima dei costi per la loro messa in sicurezza ha raggiunto i 7,2 miliardi di euro, 400 milioni in più rispetto ai 6,8 miliardi previsti inizialmente. Secondo i dati più recenti “dal 2001 al 2018 il programma di smantellamento è stato realizzato per circa un terzo delle attività, per un costo di 3,8 miliardi di euro (comprensivo di costi di gestione e trattamento del combustibile all’estero), pari a poco più del 50 per cento del budget”.

Vanno aggiunti gli 1,5 miliardi previsti per la realizzazione del deposito nazionale e il costo di esercizio annuale non ancora stimato. Nel 2018 la Sogin ha realizzato un volume di attività di decommissioning pari a 80,7 milioni di euro. Il miglior risultato di sempre, anche se inferiore rispetto al preventivo 2018 di 94,95 milioni di euro. Eppure, sulla base degli ultimi dati rilevati da Arera, sul programma quadriennale 2018-2021 “si riscontano ritardi aggiuntivi a quelli già significativi accumulati dalla commessa nucleare, con conseguente crescita dei costi a vita intera e ulteriori slittamenti della data di fine attività prevista per importanti progetti (slittamenti che vanno dai 2,5 ai 5,5 anni), imputabili tanto a fattori endogeni, quanto a fattori esogeni alla Sogin”.

LE SITUAZIONI PIÚ CRITICHE – Nella bozza di risoluzione vengono illustrate anche le situazioni ritenute più critiche per cui “ben poco è stato fatto”. In primis la “solidificazione dei rifiuti liquidi presenti nel centro di Saluggia”. Il primo passo di questo progetto, che Sogin stima di chiudere nel 2036, è la costruzione dell’impianto ad hoc. L’ultimo rinvio risale al 21 giugno scorso: il Cemex dovrebbe essere completato entro il 2023. Nella risoluzione si segnala anche la necessità di smaltire le 64 barre di combustibile nucleare uranio/torio non ritrattate, provenienti dal reattore Elk River, negli Stati Uniti e depositate nel sito Itrec di Rotondella. Anche in questo caso si chiede al governo di attivarsi “con una decisa e concertata azione diplomatica” per un accordo con gli Stati che si rendessero disponibili allo smaltimento.

Altro nodo è quello del decommissioning della centrale di Latina, per la quale costituisce un problema “il grande quantitativo di grafite, che svolgeva le funzioni di ‘moderatore’ della reazione di fissione, ‘attivato’ dagli anni di funzionamento”. Nella bozza di risoluzione si definiscono “inaccettabili” i ritardi accumulati in questi ambiti. “Sicuramente Sogin in questo ha un ruolo e delle responsabilità” spiega Girotto, secondo cui “è fondamentale che nel rinnovo del cda che avverrà nei prossimi giorni venga tenuto presente, evitando nomine che riportano vecchi nomi del passato responsabili dei ritardi”.

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