Il 2 maggio del 2007, però, in libreria spunta un volume destinato a cambiare la politica italiana. Non è un scoop e non contiene neanche intercettazioni compromettenti: è un’inchiesta sugli sprechi del Belpaese firmata da due giornalisti del Corriere della Sera, Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo. Il titolo è semplice, evocativo, e dal futuro fortunato: La Casta. Vende più di un milione di copie in pochi mesi. Dentro, tra i vari presunti sprechi, ci sono ovviamente anche le province. Che sull’onda del malcontento popolare vengono inserite anche nei programmi elettorali per le politiche del 2008. Persino quello di Silvio Berlusconi, che nel solito studio di Porta a Porta dice a Bruno Vespa: “Le province sono tutte inutili e fonti di costi per i cittadini: è pacifico che debbano essere abolite“. Walter Veltroni riesce a farsi scavalcare pure su quel punto: è quindi costretto a dichiarare di essere d’accordo “col principale esponente dello schieramento avverso”. Passano tre anni ed effettivamente la maggioranza di centrodestra vota insieme all’opposizione di centrosinistra. O meglio: il Pd si astiene. Mentre i berlusconiani votano contro la soppressione delle province. È il 5 luglio del 2011 e la Camera boccia la proposta dell’Italia dei Valori. Antonio Di Pietro ha gioco facile ad arringare la Camera: “Qui in aula si è verificata una maggioranza trasversale: la maggioranza della Casta“. Giuseppe Castiglione, presidente dell’Unione delle province italiane col Pdl, esulta: “Con la votazione di oggi si chiude l’inutile discussione sull’abolizione delle Province: ci auguriamo che da qui si possa partire con un vero confronto sulle riforme necessarie per il governo dei territori”. Tre anni dopo Castiglione farà parte del governo Renzi che sulla “inutile discussione” costruisce – e approva – una riforma intera. Anche col voto di Castiglione.

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