C’è “il sostegno italiano a un approccio ambizioso dell’Ue ai cambiamenti climatici”, scandiva il 19 marzo scorso il capo di governo Giuseppe Conte alla Camera. E aggiungeva: “Il potenziale di crescita dell’Europa potrebbe tornare ai livelli sperimentati nel passato, se solo decidessimo di accelerare la transizione verso un’Europa decarbonizzata”. Affermazioni precise, chiare, fatte a ridosso del Consiglio europeo tenutosi pochi giorni dopo (21-23 marzo), durante cui si è discusso anche delle politiche Ue sul clima.

Date le dichiarazioni rilasciate da Conte, ci saremmo attesi un’Italia che, con estrema coerenza e altrettanta chiarezza, a Bruxelles si schierasse con decisione per la salvaguardia del clima e per politiche ambiziose mirate alla decabornizzazione dell’Ue. E invece nulla. Niente di tutto questo si è verificato. Nei commenti italiani alla proposta della Commissione europea – base per la discussione del Consiglio in fatto di clima – non c’era nessun riferimento alla decarbonizzazione completa auspicata da Conte, neppure al 2050.

La “grande attenzione” del governo sui cambiamenti climatici è stata dunque sconfessata proprio da quanto emerso dal Consiglio europeo, che ha visto una spaccatura tra chi vuole impegnare l’Unione europea nella decarbonizzazione dell’economia entro il 2050 – tra cui Spagna, Francia e Paesi Bassi – e il gruppo di Visegrad (guidato dalla carbonifera Polonia) che vi si oppone per difendere economie nazionali ancora fortemente dipendenti dal carbone. Nel mezzo, silenti, Italia e Germania non hanno preso posizione, risultando determinanti per il rinvio a giugno di un nuovo confronto sul tema.

L’Italia si è quindi in pratica schierata più vicina alla Polonia che alla Spagna, difendendo il carbone – che a breve non useremo più sul suolo nazionale – e non curandosi invece di tutti i cittadini che già oggi vivono sulla propria pelle gli impatti dei cambiamenti climatici. Un vero e proprio tradimento delle promesse fatte agli studenti scesi in piazza, a centinaia di migliaia in tutta Italia, per chiedere più azioni per il clima.

Non stupisce, a questo punto, che il Piano nazionale integrato Energia e Clima (Pniec), presentato la settimana scorsa in pompa magna dai ministri Luigi Di Maio (Sviluppo economico) e Sergio Costa (Ambiente) sia ben lontano dalla strada che la scienza ci indica se vogliamo salvare il clima e noi stessi. Una proposta totalmente insufficiente a definire una strategia degna di questo nome, dal momento che si tratta di un sostanziale aggiornamento (dovuto) della Strategia energetica (Sen) presentata dal ministro Carlo Calenda nel 2017, per di più con qualche relativo peggioramento e persino con una minore trasparenza.

Dunque, il governo non ha alcunché di cui vantarsi, né sul piano europeo né sul piano interno. Continuiamo a puntare sul gas naturale, ritardando la crescita delle rinnovabili: non a caso negli ultimi anni in Italia l’energia prodotta da rinnovabili è diminuita (uno dei pochi Paesi al mondo) e aumenta quella da gas. Non sorprende quindi che il Piano preveda un obiettivo al 2030 estremamente basso in particolare per le rinnovabili elettriche, che (semmai) cresceranno quando smetteremo di usare il carbone, nel 2025. Rinviando di sei anni quello che potremmo fare già adesso. Questo è di fatto un piano incompatibile con la decarbonizzazione al 2050.

A fronte di tutto ciò, la propaganda continua inarrestabile, ma la distanza tra quello che si dichiara e quello che si fa effettivamente è siderale. Il 2019 è un anno decisivo per la battaglia sul clima. Se l’attuale esecutivo non cambierà presto rotta, rischierà di essere tristemente ricordato come il governo del cambiamento climatico.

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